Sono bastati appena cento giorni per mettere a nudo l’inconsistenza e l’improvvisazione che caratterizzano la nuova amministrazione americana guidata da Donald Trump. Il recente annuncio delle dimissioni del Consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Waltz, è solo l’ultimo segnale del caos interno alla Casa Bianca. Ma il problema va ben oltre una singola figura: riguarda l’intera impostazione politica, strategica e diplomatica che Trump ha voluto imprimere agli Stati Uniti dal giorno del suo insediamento.
Un bluff smascherato in 100 giorni
La narrazione costruita in campagna elettorale – quella dell’uomo forte, del negoziatore infallibile, del presidente capace di risolvere i conflitti globali con la forza del carisma e della pressione economica – si sta sgretolando sotto il peso della realtà. Emblematica, in questo senso, la promessa – tanto roboante quanto irrealistica – di risolvere la guerra in Ucraina “in 24 ore”. Una dichiarazione che non ha avuto alcun seguito, se non quello di alimentare un pericoloso clima di sfiducia nelle cancellerie europee e un senso di smarrimento tra gli stessi alleati storici degli Stati Uniti.
Minacce a vuoto e alleati disorientati
La politica estera trumpiana, fondata su minacce, ritorsioni e proclami, ha già dimostrato tutti i suoi limiti. L’atteggiamento aggressivo verso la NATO, con la minaccia di disimpegno militare e la pretesa di contributi finanziari maggiori da parte degli alleati, non ha prodotto alcun rafforzamento dell’Alleanza. Al contrario, ha gettato un’ombra inquietante sul futuro della difesa collettiva e ha fornito nuovi margini di manovra a potenze revisioniste come la Russia e la Cina.
Pil in calo, dollaro in affanno, debito in crescita
Sul fronte economico, il bilancio è altrettanto deludente. Dopo un avvio all’insegna dell’euforia nei mercati, l’America si trova a fare i conti con una crescita in rallentamento, un dollaro indebolito non solo rispetto all’euro, ma anche rispetto ad altre valute forti, e un debito pubblico che ha ripreso a correre, preoccupando investitori internazionali e partner commerciali. L’instabilità interna e l’incertezza strategica stanno spingendo diversi Stati a riconsiderare la loro esposizione al debito sovrano statunitense, con il rischio di innescare una spirale di sfiducia dagli effetti imprevedibili.
Una politica miope e controproducente
Un’analisi lucida e puntuale è apparsa ieri sul Corriere della Sera, a firma di Lucrezia Reichlin, che evidenzia come la politica economica dell’amministrazione Trump sia fondata su un impasto tossico di protezionismo, demagogia fiscale e miopia strategica. Il tutto condito da uno stile di governo personalistico e istintivo, più attento al consenso dei sondaggi che alla coerenza delle decisioni. Non sorprende che molti grandi investitori stiano diventando guardinghi e che la stessa Federal Reserve manifesti crescenti preoccupazioni sull’orientamento della politica fiscale.
Una crisi morale oltre che politica
Anche sul piano interno, la promessa di “rendere di nuovo grande l’America” si sta rivelando un contenitore vuoto. La polarizzazione politica è aumentata, le disuguaglianze restano intatte, e le tensioni sociali – spesso alimentate da una retorica divisiva – rischiano di esplodere in forme di protesta sempre più difficili da governare.
L’America smarrita, l’Occidente preoccupato
Cento giorni sono pochi per emettere giudizi definitivi, ma sono abbastanza per riconoscere i segnali di una crisi politica, economica e morale che coinvolge la leadership americana e preoccupa l’intero Occidente. Le promesse di cambiamento si sono tradotte in confusione. I proclami di forza in isolamento. Le minacce in perdita di credibilità.
L’America di Trump, in appena tre mesi, sembra già smarrita. E il mondo intero ne sta pagando le conseguenze.
Michele Rutigliano