Il Presidente cinese Xi Jinping ha di recente ricevuto in Italia un’accoglienza assai amichevole ed attenta. Egli ha anche firmato con le autorità italiane un ”memorandum di intesa” per la collaborazione di Roma all’ambizioso e molto reclamizzato progetto cinese della “Via della Seta”, cui si sono però accompagnati allarmi e critiche, provenienti soprattutto da paesi “amici”. Su questo attualissimo e delicato tema il Prof. Giuseppe Sacco ha risposto ad alcune domande di Francesca Nastasi

 Francesca Nastasi – La partecipazione italiana all’iniziativa cinese di una “Nuova Via della Seta” ha suscitato, non solo in Italia, ma anche all’estero, un dibattito quale raramente accade sulle questioni di politica internazionale.

Ma – secondo lei – si giustifica tanto clamore? La visita a Roma del Presidente cinese Xi Jinping, e la firma di un accordo preliminare – un MIU (“Memorandum of Understanting) – tra Roma e Pechino segnano davvero una svolta nella collocazione internazionale dell’Italia? Ci stiamo davvero allontanando dal nostro tradizionale alleato, gli Stati Uniti, per avvicinarci a quella che sembra sul punto di diventare la potenza egemone del XXI secolo?

Giuseppe Sacco – Anche se l’ascesa della Cina è un fatto innegabile, si tratta ovviamente di un’esagerazione polemica, alimentata dai concorrenti dell’Italia sui mercati mondiali. E del resto gli stessi Stati Uniti si stanno adeguando a questa nuova realtà. In particolare, la Cina è al centro della lettura del mondo attuale che aveva ispirato la politica estera dell’ex presidente Obama; politica che è in parte perseguita – a modo suo, ovviamente – anche dall’attuale Presidente Trump.

Francesca Nastasi – Come riassumerebbe questa visione?

 Giuseppe Sacco – Secondo questa lettura dello stato del mondo, la principale potenza “revisionista” dell’ordine mondiale voluto e sinora dominato dall’Occidente sarebbe oggi la Cina. Si tratta di una lettura piuttosto discutibile. Ma se fosse esatta, significherebbe che è con Pechino che per gli Stati Uniti sarà necessario, in un futuro molto prossimo, negoziare o combattere.

L’idea che da Pechino possano venire significative minacce all’egemonia americana è peraltro resa credibile dal fatto che il fattore tempo sta ormai giocando contro gli Stati Uniti e in favore della Cina, un paese in rapida ascesa dal punto di vista economico, tecnologico e militare. Lo stesso fattore tempo favorisce invece l’Occidente contro il rivale del secolo scorso, contro Mosca, capitale di una potenza in declino dal punto di vista economico, demografico e tecnologico, e quindi inevitabilmente anche da punto di vista militare.

Francesca Nastasi – Questo è proprio ciò che abbiamo sentito dire e ripetere a Roma, durante le vivaci discussioni che si sono svolte alla fine di marzo, quando è stato firmato l’accordo sulla Nuova Via della Seta. E poi nell’importante riunione, tenutasi presso l’Istituto Sturzo con la partecipazione tanto di personalità italiane di primo piano quanto dei vertici dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali di Pechino.

Giuseppe Sacco – Si è trattato di un momento di riflessione assai importante, per il quale bisogna essere grati anche al Centro Studi sulla Cina Contemporanea, presieduto dal nostro storico Ambasciatore a Pechino, Alberto Bradanini. Soprattutto perché è emerso come, veduta dall’Italia, la cosiddetta “minaccia cinese” appaia molto diversa da come la vedono le autorità della Germania e i funzionari della UE. E non solo – ovviamente –  a causa della posizione geografica della Penisola, che si trova su quella che i Cinesi chiamano la “Via Marittima della Seta” ma perché a Bruxelles i burocrati si preoccupano soprattutto di perpetuare la loro esistenza e la loro fruttuosa capacità di spesa.

In particolare, Roma continua a condividere la visione di Obama della debolezza della Russia, e solo con riluttanza attua le sanzioni imposte dai suoi alleati, che all’Italia costano più di qualsiasi altro paese partecipante all’embargo.

Francesca Nastasi – Come mai?

Giuseppe Sacco – Ciò è dovuto anche al fatto che la Russia, sapendo che l’opinione pubblica della Penisola è in gran parte contro le sanzioni, ha imposto all’Italia contro-sanzioni particolarmente severe, nella speranza di aumentare le differenze tra Roma e i suoi partner occidentali.

Le simpatie italiane per la Russia sono poi accresciute dal fatto che il pubblico italiano non crede alle teorie sui brogli elettorali che sarebbero stati organizzati in USA del regime post-comunista di Putin. In definitiva, l’Italia è sempre riuscita a rimanere una democrazia in cui le regole elettorali sono state rispettate in modo molto meticoloso; e ciò nei giorni dell’URSS, quando nel Cremlino c’era Stalin e il PC italiano era il più forte nel mondo occidentale. E poi, questa visione è uscita rafforzata dalle conclusioni dell’indagine svolta negli Stati Uniti per cercare di far fuori Trump per via giudiziaria.

Francesca Nastasi – Ma allora è la Cina a essere vista come la principale minaccia per l’Italia ?

Giuseppe Sacco – Non direi. La Cina gode di fortissime simpatie politiche presso l’opinione pubblica italiana; un po’ per il perdurante fascino di Mao come rivoluzionario e patriota puro e duro, ma molto perché gli Italiani avvertono che i Cinesi sono in genere molto patriottici. E per questo li rispettano e li ammirano. Come lei sa, gli opposti si attirano. E poi Cina e Italia non hanno sinora avuto interessi in conflitto: piuttosto il contrario. Commercialmente siamo molto complementari, e culturalmente abbiamo moltissimo da offrire alla Cina, tant’è vero che l’Italia è il secondo paese di destinazione per i turisti cinesi, dopo la Russia, che si avvantaggia della posizione geografica.

Economicamente, poi, l’Italia ha grande fabbisogno di investimenti infrastrutturali, e la Cina non solo ha accumulato, negli anni del suo boom più violento, una certa sovra-capacità in questo campo, ma ha anche enormi riserve in dollari, che adesso pensa sia più prudente utilizzare in investimenti all’estero. E infine, la Cina, che ha dimostrato sempre – e specialmente negli ultimi tempi – un forte interesse alla collaborazione con il nostro paese, presenta il vantaggio di essere molto lontana dall’Italia…….

Francesca Nastasi – …. il vantaggio…..???

Giuseppe Sacco – Certo! La Cina presenta il vantaggio di essere molto più lontana dall’Italia di quanto non siano certi suoi presunti “partners” europei come la Francia o l’Austria. Non c’è infatti da aspettarsi, dalla polizia cinese, che porti immigrati irregolari indesiderati nella ‘cugina’ Francia all’imbocco di sentieri attraverso i quali possano introdursi clandestinamente in Italia. Né, come fa l’Austria,  che rimetta in discussione i confini fissati dall’esito della Prima Guerra Mondiale, concedendo la cittadinanza austriaca agli altoatesini di lingua tedesca e ladina. O che schieri i carri armati al Brennero quando le ONG pagate da servizi segreti esteri sbarcano frotte di disperati sulle nostre coste.

Non possiamo perciò sorprenderci se alcuni membri del governo emersi dalle elezioni del 4 marzo – soprattutto “cinque stelle”, ma anche rappresentanti della Lega – non abbiano avuto remore ad avviare un dialogo con Pechino sulla partecipazione dell’Italia al programma cinese della Silk Road; dialogo che chiaramente è stato molto potenziato dall’accordo firmato a Roma con il presidente cinese Xi Jinping. L’iniziativa – come dicevamo – ha attirato le critiche della stampa dei paesi concorrenti, ma a Roma è considerato un buon investimento politico il cui valore sarà pienamente apprezzato nel caso – niente affatto inverosimile – che gli attuali atteggiamenti anti-cinesi di Washington vengano superati e che gli Stati Uniti concludano un importante accordo commerciale con Pechino. Trump potrebbe farlo tra poche settimane, ma comunque entro un anno, mettendo termini agli scontri verbali e commerciali giusto in tempo per le elezioni presidenziali del 2020.

Francesca Nastasi  Lei concorda con quanto ha scritto l’Ambasciatore Bradanini nel suo libro “Oltre la Grande Muraglia”?

Giuseppe Sacco – Come nel suo libro, al Convegno tenuto all’Istituto Sturzo, l’ambasciatore Bradanini, che conosce bene la serietà dei Cinesi ha detto chiaramente che un paese dai contorni fragili come il nostro farebbe bene – per la tutela dei nostri interessi sovrani – a seguire un sano principio di cautela, indagando con cura la natura e le finalità della presenza cinese (e non solo cinese, ma anche di altri paesi, come la Francia) nell’economia italiana.

In molti settori, infatti, Italia ha accumulato nel tempo importanti crediti dalla Cina. In trent’anni il trasferimento di conoscenze tecniche e di know-how italiane è stato tutto a senso unico, dando un grande utile alla crescita cinese. Ma le nostre autorità di governo – così come i soggetti privati – sono stati sinora incapaci di ottenere da Pechino un riconoscimento per quei crediti. E ciò nonostante che, sommati agli squilibri strutturali del rapporto commerciale bilaterale, essi renderebbero quanto mai legittima una pressante richiesta italiana di adeguate contropartite.

Francesca Nastasi – Come si è accumulato questo “debito” cinese nei confronti dell’Italia?

Giuseppe Sacco – L’ingresso della Cina nel WTO – l’Organizzazione Mondiale del Commercio – nel dicembre 2001 ha consentito a Pechino di espugnare rapidamente i mercati ricchi, in primo luogo quelli europei e quello americano, arrecando danni profondi al tessuto industriale di diversi paesi. E – come giustamente sostiene l’Ambasciatore – i danni per l’Italia saranno ancora maggiori se a Bruxelles si arriverà alla firma di un accordo di libero scambio tra Unione Europea e Cina, sul quale Pechino e i paesi del Nord Europa stanno da tempo lavorando dietro le quinte. Un tale accordo finirebbe per riproporre i rischi evitati a fine 2017 quando venne rifiutato alla Cina lo status di “economia di mercato”.

Francesca Nastasi – E i flussi di investimenti nei due sensi? Non sono un utile contributo alla crescita reciproca?

 Giuseppe Sacco – Certamente! L’apertura del mercato cinese del lavoro agli investimenti esteri ha prodotto un effetto benefico per almeno un quarto di secolo, portando ad una razionalizzazione a livello globale nell’uso delle risorse e ad uno sviluppo senza inflazione. Ma oggi – e da dieci anni buoni – questa fase sembra ormai conclusa. Il flusso di investimenti italiani in Cina è in via di esaurimento come del resto quelli europei, americani e giapponesi.

Se però non ci si limita a questa constatazione, e si prova a trarre un bilancio,  viene immediatamente da notare una importante asimmetria: gli investimenti italiani (e occidentali in genere) in Cina si sono trasformati in imprese greenfield, cioè create dal nulla, ed hanno determinato la creazione non solo un gran numero di posti di lavoro, ma anche un sostanziale trasferimento di tecnologie. Gli investimenti cinesi (come quelli tedeschi e francesi) in Italia, non creano invece posti di lavoro, in quanto si tratta di acquisizioni di imprese già esistenti. Ma anch’essi si traducono nell’accesso cinese a conoscenze tecnologiche, che il rapporto proprietario consente di trasferire facilmente in patria.

Francesca Nastasi – Non c’è modo per evitarlo?

Giuseppe Sacco – Si potrebbe, ma si dovrebbe avere una politica industriale nazionale, cosa che è il contrario esatto del conformismo ultraliberista predicato dai media, ed imposto della casta degli arricchiti senza patria nata dalla globalizzazione.

Per la sgangherata struttura statuale ed amministrativa dell’Italia attuare una politica industriale è oggi impensabile. Anche collaborare con i Cinesi, che sono commercianti nati, inventivi e ben organizzati, non sarà facile. Però va detto che non sarà neanche più difficile – anzi sarà probabilmente meno difficile – di quanto non sia collaborare con i Francesi e con i Tedeschi.

Intervista di Francesca  Nastasi

Foto utilizzata: da Pexels

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