Le questioni di ordine etico – in modo particolare quelle oggi imposte soprattutto dalla ricerca scientifica in campo bio-medico e dalle applicazioni biotecnologiche che ne derivano – sono, si potrebbe dire, patognomoniche, cioè di per sé sufficienti ed esaustive in funzione di una diagnosi che definisca la fisionomia e l’identità culturale di fondo di ogni forza politica, qualunque sia il suo orientamento.

Comprese quelle che, immaginando di esaurire queste tematiche dense di valore, su un piano meramente pragmatico, senza scomodare tediose discussioni sui massimi sistemi, con cio’ stesso fanno, a loro modo e perfino in maniera più cogente, la loro dichiarazione di principio e di fede.

Insomma, il nodo è lì e non si sfugge, dato che questi temi di carattere bioetico – l’origine e la fine della vita, le manipolazioni genetiche, la maternità surrogata, gli esperimenti di clonazione per limitarci ai capitoli più scottanti, senza dimenticare l’intelligenza artificiale e la robotica avanzata, le tecniche di potenziamento e le cosiddette prospettive di un futuro trans o post-umano – rinviano inevitabilmente ed immediatamente ad un livello più profondo, cioè a quale sia , se mai venga ammesso e riconosciuto come tale, lo statuto ontologico della persona.

In altri termini, occulta o palese che sia, c’ è pur sempre una antropologia, cioè una concezione dell’uomo, della vita e della storia che, implicita o cosciente, innerva qualunque movimento, partito o comunque ogni forma di presenza organizzata che concorra al discorso pubblico, arricchendone il pluralismo.

Per lo più si cerca di circoscrivere questi argomenti, di cui si avverte il potenziale esplosivo o meglio come possano rappresentare un discrimine difficilmente componibile, immaginando che debbano essere assegnati ad una sorta di dominio separato, cioè confinati in una bolla che può essere trattata a parte, senza che i suoi contenuti vadano ad interferire più di tanto con i normali rapporti, dialettici o collaborativi che siano, ad esempio tra forze politiche, pur di diversa estrazione culturale.

Questo intendimento non è necessariamente strumentale, ma fa piuttosto riferimento alla convinzione sincera che oggettivamente gli argomenti di carattere etico attengano ad una sfera che, per quanto impatti fortemente, com’è ovvio, il vissuto personale di ciascuno, sia sostanzialmente irrilevante in ordine a tutto ciò che attiene la vita collettiva e l’intero ventaglio delle questioni economiche, sociali, culturali e politico-istituzionali che presiedono allo sviluppo di una comunità.

In effetti, è esattamente vero il contrario.

L’antropologia cui, inconsciamente o meno, ciascuno fa riferimento, cioè quella comprensione di sé e quella attribuzione di valore che ognuno riferisce a se stesso ed alla vita, lo si avverta o meno, rappresenta un fattore imprescindibile, un nucleo da cui si irradiano categorie interpretative che inevitabilmente irrorano anche le posizioni che si assumono in ordine alle tematiche correnti, a cominciare da quelle che la politica è chiamata ad affrontare quotidianamente.

Non a caso, ad esempio, basterebbe guardare un attimo alla storia dell’ eugenetica, per osservare come, se si resta dentro l’orizzonte di una concezione meramente immanentistica della vita, questa tentazione reiterata e proteiforme qua e là ricompare, ogni volta pretendendo ingannevolmente di agghindarsi con i lustrini più appariscenti della tecno-scienza al momento più aggiornata, ma in effetti sempre uguale a se stessa, rattrappita nella sua presunzione di “fabbricare” l’uomo secondo un ideal-tipo ideologico e sghangherato, purtroppo ogni volta capace di generare mostri.

Così come è del tutto evidente – e chi ha in odore di sospetto i credenti oscurantisti, potrebbe ricorrere a laicissimi pensatori – che determinate procedure di selezione o manipolazione genetica dell’embrione, per quanto tecnicamente possibili, sono o sarebbero, in linea di principio e di fatto, distruttive – fin dalla sua più intima struttura biologica – della libertà della persona che è inevitabilmente compromessa quando e se un individuo finisca per essere il portato di una costruzione ad hoc, cioè venisse concepito in funzione di un bisogno altrui, sia pure dei genitori, piuttosto che essere il frutto di una “lotteria” genetica che lo rende unico, irripetibile, impredicibile ed “altro” anche rispetto ai patrimoni genetici parentali da cui pur deriva, eppure affermando, anche nei loro confronti, la sua autonoma costituzione.

Per quanto ci riguarda, ci atteniamo puntualmente a ciò che insegna la dottrina sociale della Chiesa e non solo per un vincolo di fede, bensì anche nella misura in cui vi ravvisiamo una ricchezza che rappresenta un patrimonio ed un orientamento prezioso pure per chi si attenga ad una visione meramente umanistica.

Il primato della persona come bene incondizionato, originario ed ontologicamente fondato è oggi anche più di ieri, nel tempo frammentato ed incerto che ci è dato vivere, l’unico riferimento sicuro si cui edificare una società aperta, una convivenza solidale, un mondo giusto.

L’etica evoca ed esige un fondamento ontologico e chi si ispira ad una concezione cristana dell’uomo e della vita deve essere consapevole di una responsabilità particolare che gli compete.

La responsabilità (su cui non è qui il caso di insistere, ma bisognerà pur tornarci) di condividere – con chi, pur muovendo da altri presupposti culturali, ritiene che la vita non sia un possesso solipsistico ed autoreferenziale, bensì un dono – quel sentimento di stupore, di ammirazione e di gratitudine che rinvia alla intangibilità della persona e, dunque, al rispetto pieno ed integrale che le e’ dovuto.

Domenico Galbiati

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