Smarrimento.

Questo è il primo sentimento che pare aleggiare tra i moderati e democratici che ancora vivono la speranza di una piena realizzazione dei valori e dei principi della Costituzione italiana.

L’esito “italiano” delle ultime elezioni europee manifesta la scomparsa di un centro moderato e il rafforzamento di forze che incitano al sovranismo ed al populismo.

Si dirà: ma in effetti un partito “tradizionale”, che si riconosce pienamente nei valori costituzionali, ancora esiste ed è comunque ancora politicamente significativo ed è il Partito Democratico (PD).

Ciò è certamente vero, ma il tutto – al di là delle frasi di circostanza – dimostra invece l’assunto, poiché la stragrande maggioranza dell’elettorato è “altrove”: se il PD non è morto, è oltremodo evidente che da solo non è in grado di essere maggioranza politica. Inoltre, tutti gli altri partiti oggi esistenti e politicamente significativi sono sempre stati “nemici” del PD e il PD si è sempre retto in “opposizione” a tali partiti.

E, dunque, che può fare “di nuovo” in questo contesto l’elettorato “moderato”?

Una prima risposta potrebbe essere semplice ed alquanto triste (per i più riflessivi) benché efficacissima: l’elettorato moderato, in realtà, non esiste se non in misura modesta e, quindi, ciò che è emerso nelle ultime elezioni è ciò che oggi c’è in Italia. Pertanto, il problema è per definizione mal posto: i moderati sono una minoranza e come tale non governano e non governeranno nel breve/medio periodo. Ciò che si sta configurando, insomma, è il risultato di ciò che oggi c’è in Italia.

Tale giudizio ha una sua persuasività intrinseca, ma presume troppo e precisamente ritiene che il quadro politico attuale sia in sé immutabile, quanto meno nell’immediato, e che gli elettori non possano “così facilmente” cambiare idea. Dopo tutto, se è vero che la fotografia non è “causa” del fotografato, è però vero che ne percepisce solo una parte e che assai spesso particolari fondamentali rimangono nascosti in ragione dell’angolatura e della capacità captativa della macchina.

Ciò che un’analisi politica, in un quadro democratico, deve sempre tenere presente, pur nel pragmatismo e nella crudezza della realtà, è la possibilità del cambiamento e, in particolare, del cambiamento verso il meglio.

Le dittature, più o meno velate, del resto, mirano, specie se instaurate a seguito di “voto popolare”, ad impedire il più possibile che gli elettori possano “mutare” atteggiamento, ma – alla luce della storia – nessuna dittatura è in grado di ostacolare davvero il mutamento sociale e, quindi, la possibilità di un rivolgimento politico. Dopo tutto, le generazioni cambiano e gli uomini e le donne, così come nascono, così muoiono … e le dittature non sono immuni da tale dinamica.

Ecco che allora il senso di smarrimento sopra riferito, si traduce, più concretamente, sull’incertezza sul “cosa e come fare qui ed ora”, affinché l’esito elettorale or ora manifestato non pregiudichi il futuro politico italiano.

Anche qui, si potrà rispondere in maniera schietta e grossolana che non si vede quale problema vi sia nel quadro politico emergente: tutti i partiti esistenti si riconoscono nella Costituzione e le eventuali dissonanze rispetto ai desiderata di questo o quell’elettorato, magari dotto e pedante, non ha valore pregnante, proprio perché si è in democrazia. Inoltre, l’insoddisfazione – così potrebbe continuarsi -, che è così diffusa specie tra i “ben pensanti”, è rivolta più al “capo” di questo o quel partito ora emergente piuttosto che al partito in quanto tale. Insomma, la critica in questione sarebbe più ad personam che ad rem … ma, come si è soliti dire, de gustibus non disputandum est e il giudizio contro questa e quella persona “eminente” non è altro che un indizio, assai forte, di una sostanziale invidia, che certamente non è una virtù e denota in fondo l’evidente parzialità e debolezza delle critiche presenti.

Non bisogna, però, correre troppo, poiché con un simile opinare si confonde il presente con la verità dell’opinione: oggi – è vero – non vi è un pericolo di una dittatura imminente (ed un tale richiamo, essendo per definizione infondato, non potrà che portare a conclusioni errate e, quindi, scarsamente “persuasive” nel medio/lungo periodo), ma il pericolo che i principi cardine della Costituzione italiana siano sovvertiti in breve tempo. Ed un tale sovvertimento non può condurre ad un aumento della libertà e della democrazia, ma, semmai, ad una loro compressione inevitabile.

Ma cosa significa tutto ciò? In che modo, un simile approccio può accattivare un elettorato, stregato dai click, dalla possibilità di una fama di qualche secondo … dalla voglia di non pensare troppo … essendo troppi i problemi del quotidiano vivere?

Significa concretizzare i principi espressi nelle norme costituzionali, ricordando e rinnovando il perché del loro valore.

L’astrattezza dei discorso politico dotto, oggi, è indicata come chiaro segno di debolezza e ciò è in parte, ma solo in parte corretto.

Ecco che allora è necessario ripartire e, magari, di ripartire, non preoccupandosi solo ed in primo luogo dei mezzi pubblicitari, ma dei contenuti: se questi mancano, il diletto, benché ampio, non muove l’animo politico serio, ma solo il compiacimento mediatico.

Si deve quindi ripartire … ma da dove?

Credo che il riferimento non possa che essere “l’inizio” ed nel caso italico il riferimento non può che essere l’art. 1 della Costituzione italiana, che oggi viene obliterato del tutto: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

Che significa “lavoro”? Il lavoro è attività puramente retribuita o economica oppure è, più propriamente, attività umana protesa ad uno scopo, scopo che non può essere propriamente ideato, programmato e raggiunto senza un sforzo comune e senza sacrificio?

Il lavoro è l’atto con il quale gli uomini di tutti i tempi hanno cambiato lo stato di cose esistente. Esso concretizza l’idea di un “sogno” di un mondo migliore. Ma se il lavoro viene astratto da questa sua forza ideale, in che modo la Repubblica italiana potrà essere davvero democratica e soprattutto degna di essere “difesa ed amata” dai suoi cittadini?

Oggi il lavoro “fonte di reddito”, quale che sia la sua manifestazione, è in forte crisi per la maggioranza dei cittadini e tale debolezza materiale ha trasformato completamente la “forza ideale” del lavoro.

Ciò sta conducendo, inevitabilmente, alla mortificazione della speranza e del buon umore, tipicamente italiano, e, di converso, alimenta la proliferazione della delusione, che è la prima stanza della frustrazione, che è madre della rabbia e, quindi, del rifiuto diffuso di ciò che è stato fino a ieri, in quanto considerato causa dell’oggi.

Oggi basta avere quel minimo per andare avanti … e vince chi promette “pane e divertimento”.

Tale ricetta non è nuova, come ben si sa, ma è sempre attraente, poiché facilmente adattabile ai contesti storici di riferimento. Ma se così è, è oltremodo vero che gli slogan di tutti i sovranismi e populismi ragionano facendo riferimento ad una logica “infantile” e facilmente individuabile.

“Prima l’Italia e primi gli italiani!” ovvero “l’Italia agli italiani” … ecco i diffusissimi ritornelli che aleggiano e che fanno tanta presa, ma che sono anche oggettivamente risibili appena si ci sofferma un po’.

Qual è la competizione europea o mondiale di riferimento? Primi rispetto a chi e a che cosa? Ed ancora, in che modo l’Italia può avere un valore mondialmente riconosciuto e appartenere davvero agli italiani se non con la pace e la proliferazione degli accordi di collaborazione con gli Stati confinanti e, più in generale, con il “resto del mondo”?

Non sono forse tali affermazioni, se ben considerate alla luce del contesto attuale, un invito all’isolamento ed al compiacimento della solitudine che verrà? E non è forse vero che tali “slogan” ben possono essere riferiti, presto o tardi, al Nord (o al Sud) d’Italia o persino a questa o quella città? E, dunque, non è forse vero che simili richiami invece di unire conducono alla divisione e che la divisione serve più alla disgregazione che alla fortificazione della società?

Qualsiasi politica, che – in tempo di pace – incentivi l’isolamento, incentiva la crisi economica e morale di un popolo, poiché non si protegge altro e non si tramanda altro che l’egoismo sociale ed individuale.

Bene – si dirà ancora – … tutto vero, ma tutto ciò non cambia il quadro esistente e non solletica gli animi. Quindi, si tratta di altre parole al vento e di altre dotte lucubrazioni.

Può darsi … se non fosse che vi sono anche compiti morali e sociali da adempiere e che chi si rende conto di questi, ben può rifiutarli oppure farli propri. Si riferisce al compito di guardare agli altri come compartecipi del nostro destino e di sforzarsi per una società migliore, una società che non tema di per sé l’altro e che non confonda il sacro col profano e che non è disposta a mangiarsi tutto quello che le sta intorno, pur di sopravvivere un qualche giorno in più.

Bisogna però evitare di banalizzare l’aspetto materiale del lavoro, cioè il suo risvolto come mezzo essenziale di mantenimento economico, poiché diversamente ogni politica “nobile” non solo perderebbe l’aderenza con la realtà del suo tempo ma anche ogni interesse democratico.

Ciò significa in primo luogo che chi si avvicina alla politica del futuro non può, con riferimento a legittime attività, auspicarne semplicemente la chiusura oppure un divieto imprenditoriale tutto discrezionale. Ogni nuova politica non può cioè lamentare puramente e semplicemente l’esistenza di esuberi oppure la chiusura di fabbriche o cantieri, poiché ciò contrasta con l’aspetto essenziale del lavoro.

Nello stesso modo, si può far riferimento alla generosità e al giudizio inerente all’acquisto di beni e servizi, ma tali atteggiamenti non possono e debbono costituire la regola e vanno invocati ed applicati in specifiche situazioni: il che significa, in sostanza, che non costituiscono “regola politica” e pertanto non possono essere poste a fondamento significativo di una futura azione politica.

Che ciò sia risulta dal fatto che la “donazione” in ambito lavorativo non può essere imposta o pretesa, ma va collegata alla specifica volontà dei soggetti … che per essere incentivati, evidentemente, non possono non ottenere un qualche beneficio sociale ed indirettamente economico … il che è come dire che si può dare, ma solo a determinate condizioni, sempre che si voglia e possa farlo nelle circostanze concrete.

Nello stesso modo, incentivare l’acquisto di prodotti buoni oppure di non comprare ciò che è considerato non buono, rientra nella valutazione discrezionale di ciascuno. Certamente si possono fornire informazioni adeguate per un corretto giudizio, ma non ci si può stupire che non vi siano ampie folle al seguito allorché il fine concreto (fosse anche solo maliziosamente presentato) sia quello di far licenziare dipendenti o di far chiudere multinazionali, il tutto a vantaggio di altre aziende e di altri lavoratori. D’altra parte, un simile atteggiamento è molto affine al protezionismo sovranista, il quale, seppur inconsciamente e più brutalmente, si muove esattamente sulla medesima linea, laddove preferisce i “prodotti nostrani” …

Dunque, ogni politica non può di regola determinare la riduzione dei posti di lavoro o delle attività esistenti, così come le remunerazioni ed i vantaggi presenti.

Si dirà: ma come si può affermare ciò, in periodi di crisi e laddove vi sia la necessità di “pagare debiti” statali?

Ciò è possibile allorché la rinuncia attuale, venga e sia davvero considerata ed attuata non come una “spesa” a carico della società civile, ma come investimento sociale per il futuro delle generazioni presenti e future.

Tale dato, in sé semplice e quasi banale, è – ad onor del vero – completamente scomparso dall’analisi e dall’azione politica, poiché è confuso con la pubblicità elettorale – data l’incapacità di mantenere, anche solo sotto il profilo tecnico, giuridico e burocratico gli impegni presi – ed è valutato come una sorta di chimera … come un qualcosa che si può dire, ma non si deve fare … poiché le circostanze possono cambiare … poiché i politici e le maggioranze possono mutare … perché non c’è nulla di stabile e così via.

Se non che le risorse finanziarie pubbliche derivano in primo luogo dalle ricchezze prodotte con il lavoro e se manca una funzionalizzazione effettiva e chiara della destinazione delle risorse, la rappresentanza parlamentare è sentita per lo più come inutile ed oziosa.

Vi deve quindi essere un patto politico tra rappresentati e rappresentanti, che deve andare oltre la questione del “vincolo di mandato” relativo al singolo parlamentare, poiché qui non si tratta di questo o quel soggetto, con riferimento a questa o quella questione, o dell’obbedienza al partito ma del fatto che si chiede di mantenere la fiducia nell’elettorato in ragione delle promesse elettorali.

Già, le promesse elettorali … tanto vituperate nell’evo contemporaneo che il solo invocarle pare essere assurdo, se non fosse che è proprio sulla forza di tale “promesse” che il sovranismo sta prendendo piede.

E ciò, si crede, sia il punto fondamentale da non sottovalutare, ma anzi da considerare con estrema attenzione e capacità di analisi.

Promettere un futuro migliore, con forza, con convinzione e con passione eccita gli animi democratici e non può non essere così, laddove il politico è credibile e degno di fede.

Se manca tale elemento, tutto si riduce all’analisi dei bilanci presenti e quindi alla riduzione dei costi correnti: ma qualunque impresa che sorga per la riduzione dei costi è nata morta, poiché non ha come primo obiettivo la creazione di ricchezza e la diffusione dell’utilità pubblica, che è innanzi tutto una utilità che deve percepirsi ed essere percepita favorevolmente dai cittadini.

“Tagliamo i dipendenti pubblici e lo stato sociale” … così risparmieremo ! Così non si è risparmiato affatto, poiché i bisogni sottostanti all’amministrazione pubblica erano e sono veri e tantissimi, e coi tagli si è solo determinata una riduzione abnorme dell’attività pubblica e dei servizi ai cittadini.

“Dobbiamo ridurre i benefici pensionistici … tassiamo le prime, seconde, terze e quarte case … e se possibile anche le successioni” … così l’Italia sarà alla pari, nella povertà dei singoli cittadini, come tutti gli altri europei! Peccato che è proprio incidendo su tali elementi che si è incominciato ad erodere la “convenienza” dei vincoli familiari e della famiglia legittima come istituzione, che se è vero che è stata vituperata da molte altre leggi, è altrettanto vero che chi voglia sposarsi nel modo tradizionale ovvero voglia avere figli o aiutare i propri figli legittimi oggi vede tutto ciò come difficilissimo e come impresa economicamente assurda … perché la pensione è un miraggio, perché il pensionato non può sostenere i propri figli, perché le case non valgono più come un tempo e possederle è divenuto costoso ed oggettivamente troppo oneroso e più di tutto il lavoro, anche quello intellettuale e professionale, è diventato non già un mezzo per manifestare ed attuare la propria personalità, ma come vincolo di precarietà a vita e dalla scarsissima reddittività effettiva.

Senza casa, schiavi del lavoro, con redditi mediocri e con prospettive di solitudine nelle malattie e nelle avversità della vita, così come nella vecchiaia, il nuovo cittadino ha bisogno, come ogni uomo in ogni epoca, di sognare ed in ciò chiede aiuto e chiede ciò innanzi tutto a chi richiede il suo voto: chiede che lo si comprenda in tale semplice ma genuino desiderio di vivere meglio per sé e per gli altri.

Se la politica, quella seria e giudiziosa, dimentica tale dato, sarà sempre incapace di essere al potere.

Ecco che allora bisogna volere dare maggiore ricchezza agli italiani e dare maggiore solidità alle famiglie, ma bisogna anche dire che si vuole ciò e che sia sa come farlo.

Solo se manca, ovviamente, tale conoscenza, allora si deve giustamente rimanere in silenzio; se invece si sa come poter raggiungere tale fine in maniera concreta ed effettiva, allora si deve agire e non temere di attivarsi politicamente.

Impostare la campagna o il programma elettorale solo sulle paure presenti o dell’altro, è inutile e non fa che alimentare proprio ciò che si vuole combattere.

Si dice che vi è enorme debito pubblico: verissimo, ma non interessa semplicemente pagare i debiti, ma anche impegnare le risorse per creare ricchezza. Come fare? O non c’è davvero una speranza oppure c’è una soluzione ed allora bisogna studiare il da farsi e quindi agire politicamente in tal senso. Ma i populisti parlano di aumentare il debito … è vero, ma dicono altresì che pagheranno il tutto in ragione della crescita … Ma la crescita indicata è fasulla: bene … allora si dica come poter fare per creare nuova ricchezza … se non si sa, si dovrà tacere e col silenzio non si farà che avvallare la forza – a questo punto legittima – del populismo.

Ciò che dunque sta emergendo è la necessità di far proprie le istanze “più nobili” del populismo, in quanto hanno qualcosa di vero, ma anche di rinvenire grazie alla tecnica e alla capacità nuove soluzioni e nuovi modelli di intervento politico.

Non basta, dunque, argomentare contro la “ricetta”, poiché ai cittadini, nello stato attuale delle cose, non interessa sapere se il cibo presentato poteva essere migliore o se lo stesso è mal fatto, ma mangiare, perché si ha tanta fame.

Si vuole un mondo, anche dal punto di vista ambientale, migliore? Bene … ma non si cominci dalla tassazione o dall’imporre oneri assurdi ai cittadini. Si incominci piuttosto col premiare davvero (e non con giochi contabili o con minacce di sanzioni draconiane) chi investe nella proprie attività, nella propria casa. Si vuole ridurre l’inquinamento delle automobili? Che si incentivi la ricerca delle auto elettriche e che si favoriscano, senza trappole mortali burocratiche, chi vuole sostenere tali innovazioni e renderle fruibili ai più. Si vuole incentivare la ricerca e lo studio? Si investano denari e si impediscano ai mediocri, specie dal punto di vista umano, di insegnare e gestire le scuole ed i centri di ricerca e che si aiutino tutte le generazioni al gusto della scoperta e della lettura, oltre che dell’arte e della musica.

Ma perché tutto quanto sin qui detto abbia un valore sociale, nelle democrazie contemporanee, ciò deve tradursi in attività politica istituzionale e, quindi, all’azione di un nuovo partito politico.

Nuovo non solo nella forma, in quando deve strutturarsi secondo le esigenze e le cautele del presente momento storico, ma nuovo innanzi tutto nella sostanza, di modo che sia capace di indicare fini chiari e specifici di felicità, evidenziando metodologie d’azione che non solo rispettino la sacralità della persona, ma che incentivino anche i migliori aspetti dell’animo umano, come l’altruismo, la generosità, l’assistenza e più in generale la cura dell’altro. Il tutto in una esaltazione dello spirito creativo di ciascuno, di modo che a fianco al negotium via sia ancora spazio per l’otium, così da ridare fiato alla speranza per il domani nell’apprezzare la vita presente, che già di per sé porta ogni giorno sofferenze e mali d’ogni genere.

Ecco allora l’idea centrale del tutto: che si speri e che si torni a sperare sempre di più. Ma che si tratti di una speranza reale, non frivola e quindi che sia sufficientemente concreta da potersi verificare e constatare allorché si affermi essere stata raggiunta.

Mai come in questi ultimi anni in Europa, si è goduta la pace eppure mai come ora tale pace appare come priva di significato per i più.

La pace – così si dice e si dice il vero – è sempre connessa alla giustizia, poiché se quest’ultima manca, mancano le condizioni reali della pace. Ma se così è, allora bisogna dare a ciascuno il suo. In politica, ciò significa che i cittadini hanno diritto di aver molti, moltissimi politici degni e capaci di agire perché il loro futuro possa essere migliore. Ecco che allora è necessario che chi si reputa degno e capace, oggi non può più nascondersi o appoggiarsi solo all’esistente, ma deve anche mirare a qualcosa di nuovo e farsi avanti.

Se non si realizzerà quest’atto fondamentale di giustizia democratica, allora non potrà che esservi una democrazia ingiusta e, dunque, un ferimento delle libertà e, in definitiva, della pace.

Che giunga allora presto, una vera giustizia, perché, nella pace, si attuino davvero le libertà.

Alfredo De Francesco

 

Immagine utilizzata : Shutterstock

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