Non risulta che Luigi Sturzo e Adriano Olivetti si siano mai incontrati “de visu”, ma
certamente si conoscevano e si stimavano, come risulta dalle loro due lettere qui allegate,
nonché dal fatto che nel 1948 l’Ing. Olivetti possedeva una copia del libro più importante scritto
dal sacerdote di Caltagirone, “La Vera Vita, Sociologia del Soprannaturale”, come rivelato
dalla lettera qui allegata di Lina Morino. Non vi è dubbio che fra questi due grandi italiani vi
sia stato un comune “idem sentire” su come affrontare e risolvere i principali problemi della
società. Furono due grandi italiani dotati di una dote rara: quella di essere stati sia uomini di
pensiero che uomini di azione. Infatti entrambi hanno ben scritto e ben fatto.
Molto di più ha potuto scrivere Sturzo, grazie al suo lungo esilio a Londra e a New York
(1924-1946) e alle centinaia di articoli scritti dopo il suo ritorno a Roma (1) sino a pochi giorni
dalla sua scomparsa, avvenuta a circa 88 anni. Non vi è dubbio che la sua voluminosa Opera
Omnia (oltre 50 libri) sia anche il frutto della sua lunga esperienza di “uomo del fare” come
promotore sociale, consigliere comunale, consigliere provinciale di Catania, pro-sindaco di
Caltagirone e segretario politico del Partito Popolare Italiano. Olivetti, sempre molto
impegnato nel “fare impresa” e scomparso prematuramente a 59 anni, ha scritto di meno, ma
la qualità innovativa dei suoi libri e opuscoli rivela anche la dote di grande uomo di pensiero,
che “volò” dall’architettura istituzionale dell’Italia all’architettura ambientale e sociale delle
sue “comunità” a Ivrea, Pozzuoli e Matera.

UNA GRANDE FEDE NEI VALORI RESPONSABILIZZANTI DEL CRISTIANESIMO
Perché due “anime gemelle”, anche se distanziate da 30 anni di età? Innanzitutto le univa
una grande fede nei valori responsabilizzanti del cristianesimo, valori da loro ritenuti
fondamentali per la realizzazione di una società libera e giusta. In Sturzo la “scintilla” si
manifestò con la “Rerum novarum” del 1891, quando aveva 20 anni. L’Enciclica di Leone XIII
gli fornì la pietra angolare su cui costruire gran parte della sua attività politica e sociale. Fu
l’Enciclica che infranse il mito del liberalismo individualista (“laissez faire, laissez passer”) e il mito del nascente comunismo, definito dal Papa come una medicina peggiore del male che
voleva curare.
La “Rerum novarum” contribuì a radicare in Sturzo un solido convincimento: gli ideali di
libertà e di giustizia sociale si possono realizzare solo nel rispetto dei valori del cristianesimo
che alla loro base hanno innanzitutto l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Valori che
richiedono l’uso responsabile del dono più prezioso donato da Dio agli esseri umani: la libertà.
Né il liberalismo né il comunismo si fondavano su questi valori e non potevano quindi essere
utili per la società. Il liberalismo o, meglio, il liberismo selvaggio non poneva limiti alla libertà
e quindi sacrificava la giustizia sociale a favore degli imprenditori-padroni, i cosiddetti
possidenti, che consideravano i lavoratori come semplici strumenti di produzione. Invece il
comunismo sperava di raggiungere la massima giustizia sociale ponendo in “fuori gioco”
l’iniziativa privata e affidando la gestione dell’economia all’unico imprenditore-padrone: lo
Stato.
Leone XIII, ben “istruito” dal grande economista cattolico (e ora Beato) Giuseppe Toniolo
(1845-1918), introdusse una terza via tra queste due visioni conflittuali, ma entrambe sbagliate,
parlando per la prima volta di “stretta alleanza” tra imprenditori e lavoratori per risolvere la
“questione operaia”. È con la libertà economica responsabile, cioè con la buona formazione
culturale degli imprenditori e con il cointeressamento dei lavoratori alla salute e agli utili
dell’impresa, che si può realizzare la giustizia sociale. L’idea “rivoluzionaria” dell’Enciclica
leoniana è sintetizzata nel seguente concetto fondamentale:
“Nella presente questione operaia lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale
nemica naturalmente dell’altra, quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare
tra loro un duello implacabile, cosa tanto contraria alla ragione e alla verità (…), perché la natura
volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi e ne risultasse l’equilibrio.
L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il
capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può
dare che confusione e barbarie. Ora a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il
cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.”
Era questa la positiva esperienza maturata da Giuseppe Toniolo in Veneto a diretto contatto
con il diffuso fenomeno delle cooperative sociali e delle casse rurali. Fu così che Sturzo, studente
all’Università Gregoriana e allievo del Prof. Toniolo, si rese conto delle tragedie umane causate
da tanta “confusione e barbarie” nel corso dei secoli, e si convinse che benessere e giustizia
sociale si potevano conseguire solo con la “conversione” del capitalismo ai valori e ai principi
del cristianesimo. Una fede, che si fonda sul reciproco amore tra Dio e gli esseri umani, e di
questi fra loro, non può che invitare alla massima concordia e intesa anche nel campo
economico e sociale. L’ispirazione cristiana era quindi indispensabile per favorire la libertà
responsabile di tutti e la giustizia per tutti.

TUTTI PROPRIETARI NON TUTTI PROLETARI
L’etica cristiana dell’economia si basa su questa stretta alleanza fra capitale e lavoro, senza
la quale non può che prevalere l’egoismo dei poteri forti e lo sfruttamento dei più deboli, due
mali contro i quali si scagliò Marx. Ma la sua era una cura sbagliata, perché lo Stato – per voler
fare giustizia sociale – avrebbe prodotto l’ingiustizia dell’abolizione del diritto di proprietà
privata, ossia di un diritto naturale che spettava a tutti.
L’incisivo auspicio di Leone XIII, forse suggerito proprio da Toniolo (“tutti proprietari non
tutti proletari”), rimase impresso nella mente del giovane Sturzo, che poi agì per tutta la sua vita
con una “missione” ben precisa da compiere: promuovere la funzione sociale del diritto di
proprietà. Bisognava far capire quanto importante fosse il valore della libertà economica
responsabile e il conseguente principio della difesa e della promozione dell’iniziativa privata. Si
poteva così diffondere al massimo il diritto di proprietà privata per il benessere di tutti e non –
come era sempre avvenuto nei secoli passati – per il benessere di pochi. L’incisivo auspicio di
Leone XIII, espresso con soltanto cinque parole, abbatteva d’un colpo il monumentale impianto
dottrinale di Marx.
Ma quelle cinque parole rappresentavano anche un atto di accusa contro l’esperienza storica
del potere temporale della Chiesa (“sono lieto di essere nato nel 1871, un anno dopo la fine di
quel potere” diceva Sturzo), perché anche i Papi – prima di Leone XIII – affermavano rassegnati:
“Così va il mondo, chi nasce povero muore povero e chi nasce ricco muore ricco”. Ciò equivaleva
a dire che Dio aveva creato il mondo per donare ricchezze naturali immense solo a una ristretta
minoranza di esseri umani, vietandole a tutti gli altri; o a dire che il “crescete e moltiplicatevi”
si doveva rivelare come un generoso invito al paradiso terrestre per pochi e come una ingiusta
condanna all’inferno su questa terra per tutti gli altri; o a dire che “il sudore della fronte” era
riservato a molti per porli al servizio dell’esclusivo piacere di pochi. Come dire che l’ingiustizia
sociale era in effetti di origine divina. Ma Sturzo capì che l’ingiustizia sociale era invece di
origine umana, prodotta dal violento predominio del ristretto vertice dei poteri forti sull’ampia
e debole base della società.
Pertanto lo stimolo culturale e pedagogico della “Rerum novarum” fu determinante nel
motivarlo all’azione sociale. In breve tempo egli si rivelò nella sua Caltagirone come un
efficiente promotore di iniziative produttive e solidali, dando vita a cooperative di lavoro e di
consumo, nonché alla costituzione nel 1897 di una cassa rurale in funzione anti-usura. Fu il suo
metodo concreto di tradurre il pensiero – nutrito di buona cultura – in azione costruttiva. Il
sistema economico-sociale della sua città doveva trasformarsi in un sistema aperto a tutti, a
partire dall’istruzione di base, cioè dalla scuola elementare, sino ad allora praticamente
“chiusa” ai figli dei poveri, ossia alla maggioranza dei bambini.
Il saggio incitamento, che Dante fece dire a Ulisse per motivare i suoi marinai – esausti e
bloccati dalla mancanza di vento – a mettere di nuovo mano ai remi per proseguire il loro
coraggioso viaggio (“Considerate la vostra semenza, fatti non foste per viver come bruti, ma per
seguir virtute e canoscenza”), non fu mai capito dai governanti del mondo né dalla Chiesa.
La conoscenza (nell’italiano di Dante “canoscenza”) fu sempre riservata al vertice, mentre la
base – per lo più formata da soldati e contadini – era condannata a sudare utilizzando soltanto
i muscoli delle braccia; muscoli deboli, poco produttivi e quindi mal pagati, causa prima della
povertà di massa, dell’ingiustizia sociale e del “viver come bruti”.

LA VERA “RIVOLUZIONE” È QUELLA DEL CRISTIANESIMO
Se questa era stata la “cultura” prevalente nella lunga storia dell’umanità, non sorprende
che nel 1894 – all’inaugurazione dell’anno giudiziario – il Procuratore della Repubblica di
Caltagirone dicesse: “Il saper leggere e scrivere ha dato luogo a molti inconvenienti e, specie nelle
contese elettorali, alla rovina delle masse”. E nelle sue memorie, Giolitti ricordava che da
Caltagirone, in quegli stessi anni, venne la richiesta dell’abolizione dell’istruzione elementare,
“perché i contadini non potessero, leggendo, assorbire idee nuove”. Quelle idee nuove che invece
Leone XIII promuoveva con la sua Enciclica più famosa, che infiammò la mente del seminarista
Luigi Sturzo, divenuto sacerdote proprio nell’anno in cui il suddetto Procuratore della
Repubblica si lamentava dei danni prodotti dalla “conoscenza”.
E nei 15 anni in cui fu pro-sindaco di Caltagirone (1905-1920), Sturzo riuscì a portare nel
territorio calatino molte innovazioni “rivoluzionarie” (ma si trattava della più vera delle
“rivoluzioni”, quella cristiana, non della più falsa, quella comunista), così da trasformare un
popolo da sempre “estraneo” allo sviluppo economico-sociale in un popolo destinato – nelle sue
intenzioni – a essere sempre più “partecipativo”, ossia partecipante allo sviluppo dell’economia,
in quanto coinvolto e cointeressato in questo sviluppo. Di qui il nome di “popolarismo” dato al
suo metodo di governo, quando nel 1919 fondò il Partito Popolare Italiano.
In quell’anno Adriano Olivetti, 18enne, conobbe Piero Gobetti a Torino. Fra i due giovani si
stabilì subito una sincera amicizia, poi consolidata in una forte intesa culturale, quando nel
1922 Gobetti – poco più che ventenne – fondò la rivista di cultura politica “Rivoluzione Liberale”
sotto l’influenza di Gaetano Salvemini. Fu quindi tramite Gobetti che ci fu il primo contatto
indiretto tra Sturzo e Olivetti. Questi certamente sapeva della grande stima che Gobetti nutriva
per il fondatore del PPI. Il 26 aprile 1923, a pochi giorni dalla fine del Congresso del PPI
svoltosi a Torino (12-14 aprile), dove si decise l’uscita dei ministri popolari dal governo
Mussolini, Piero Gobetti scriveva la seguente lettera a Sturzo: “Non ho voluto disturbarLa al
Congresso, perché La vedevo preso in tante cose più importanti, ma L’ho seguita con animo da
liberale. Anche per ‘Rivoluzione Liberale’ Ella mi aveva promesso qualche frammento di studio o
qualche spunto: ce lo manderà?”
Altroché “frammento di studio” o “spunto”… Sturzo era talmente in sintonia culturale con il
giovane Gobetti che nei mesi successivi decise di affidare alla sua Casa Editrice ben tre libri:
“Popolarismo e fascismo”, “Pensiero antifascista” e “La libertà in Italia”. Furono decisioni
coraggiose, sia per l’Autore che per l’Editore, perché l’esito del Congresso di Torino determinò
la fine dell’attività politica di Sturzo (nel luglio del 1923 egli fu costretto a dimettersi da
Segretario Nazionale del PPI su pressione del Vaticano) sino a obbligarlo all’esilio nell’ottobre
del 1924. La fama di editore antifascista costrinse anche Gobetti all’esilio, che fu di breve
durata, in quanto morì a Parigi nel febbraio del 1926 in seguito alle ferite
causate da diversi violenti pestaggi subiti per mano di fanatici fascisti
italiani.

L’IMPRESA COME “FABBRICA DI BENE”
Il destino di Adriano Olivetti si intrecciò con quello di Sturzo e di Gobetti, perché nel 1925
suo padre Camillo – seriamente preoccupato per l’amicizia del figlio con il giovane editore
antifascista e con Carlo Rosselli – decise di allontanarlo da queste amicizie “pericolose” e di
inviarlo negli Stati Uniti per un lungo viaggio di studio, che lo portò a visitare ben 105 imprese.
Ritornò in Italia dopo sei mesi con una cinquantina di libri di economia e di organizzazione
scientifica del lavoro che lo influenzarono molto, sino a maturare nel tempo una sua originale
concezione dell’impresa come “fabbrica di bene”. Questa doveva essere un luogo a misura
d’uomo, nel pieno rispetto della dignità del lavoratore e del suo vivere in armonia con
l’ambiente circostante. Riuscì a realizzare il suo sogno nel secondo dopoguerra, culturalmente
arricchito da tante letture (fra i quali alcuni libri dell’Opera Omnia di Sturzo) e dalla
conversione al cristianesimo, che lo portarono a vedere la salvezza dell’economia attraverso
l’economia della salvezza contenuta nel Vangelo e nelle Encicliche sociali da lui certamente lette
e meditate.
Il lungo viaggio negli Stati Uniti, compiuto quando Olivetti aveva solo 24 anni, contribuì
anche ad “aprirlo” al concetto di multinazionalità dell’impresa e di globalizzazione
dell’economia, che lo portò dapprima a sviluppare la rete commerciale della Olivetti all’estero
e più tardi – negli anni ’50 – ad aprire negli Stati Uniti un laboratorio di ricerca sui calcolatori
elettronici, uno stabilimento a San Paolo in Brasile e infine ad acquisire la Underwood, storica
azienda Usa di macchine da scrivere con quasi 11.000 dipendenti. Alla prematura morte di
Adriano (27 febbraio 1960), la Olivetti poteva considerarsi – con circa 40.000 dipendenti – la
prima impresa italiana multinazionale e una delle più innovative.

STURZO PROFETA: LA GLOBALIZZAZIONE SARÀ UN FENOMENO INARRESTABILE, MA SARÀ UNA NOVITÀ POSITIVA SOLO SE BEN GESTITA
Nello stesso periodo del primo viaggio americano del giovane Olivetti, Sturzo – già in esilio a
Londra – iniziò a riflettere sui benefici e sui pericoli di un fenomeno da lui ritenuto inarrestabile:
la globalizzazione dell’economia mondiale. Nel libro “La comunità internazionale e il diritto di
guerra”, pubblicato nel 1928, egli fa capire cosa ci avrebbe riservato il futuro con il graduale
abbattimento dei confini fisici e ideologici. Ecco un brano significativo:
“Alcuni hanno timore della potenza enorme che ha acquistato e acquista sempre più il
capitalismo internazionale, che – superando confini statali e limiti geografici – viene quasi a
costituire uno Stato nello Stato. Tale timore è simile a quello per le acque di un fiume. Davanti al
pericolo di uno straripamento, gli uomini si sforzano di garantire città e campagne con canali,
dighe e altre opere di difesa. Nel medesimo tempo lo utilizzano per la navigazione, l’irrigazione, la
forza motrice e così via. Il grande fiume è una grande ricchezza, ma può essere un grave danno:
dipende dagli uomini, in gran parte, evitare questo. Quello che non dipende dagli uomini è che il
fiume non esista.

Così è del grande fiume dell’economia internazionale. La sua importanza moderna risale alla
grande industria del secolo scorso: il suo sviluppo, attraverso invenzioni scientifiche di assai
grande portata nel campo della fisica e della chimica, diverrà ancora più importante, anzi
gigantesco, con la razionale utilizzazione delle grandi forze della natura. Nessuno può
ragionevolmente opporsi a simile prospettiva. Ciascuno deve concorrere a indirizzare il grande
fiume verso il vantaggio comune.
Contro l’allargamento delle frontiere economiche, dai singoli stati ai continenti insorgono i
piccoli e grandi interessi nazionali, ma il movimento è inarrestabile: l’estensione dei confini
economici precederà quella dei confini politici. Chi non sente ciò è fuori dalla realtà”.
Con la sua innovativa azione di imprenditore, Olivetti cercò di non restare fuori dalla realtà
e anticipò i tempi aprendosi all’estero. Ma per i posteri Sturzo lanciò un ammonimento sin dal
1928: il buon capitalismo prevarrà se il mondo della politica e dell’economia riuscirà a stabilire
e a rispettare le buone regole di navigazione, nonché a costruire canali scorrevoli, dighe solide
e altre opere di difesa contro le avversità causate dai comportamenti irrazionali e quindi
immorali dei naviganti. Comportamenti che comunque esisteranno sempre, ma si tratta di
ridurli e isolarli gradualmente nel tempo per neutralizzare i loro effetti negativi. Di qui
l’enorme importanza del rispetto dei valori morali nel fissare le regole di navigazione e nel
controllare che i naviganti le rispettino.

I VALORI DEL CRISTIANESIMO VANNO POSTI ALLA BASE DELLA SOCIETÀ CIVILE
Pertanto Sturzo e Olivetti si possono considerare “anime gemelle” soprattutto per la loro
convinzione di porre i valori morali del cristianesimo alla base della società civile. Tutto ciò che
inquina o annulla quei valori danneggia la vita umana fino al rischio di distruggerla. Sono valori
non solo di promozione, ma anche e soprattutto di difesa dell’uomo. In un articolo pubblicato
sul quotidiano El Matì di Barcellona del 12 novembre 1933 dal titolo “Schiavitù antiche e
moderne”, Sturzo scriveva:
“Occorre avvicinare gli uomini fra di loro, padroni e operai, capi di Stato e cittadini, popoli e
popoli, per rompere i vincoli di schiavitù che si vanno formando, come cerchi infrangibili. Occorre
perciò elevare il senso morale dei popoli, riabilitare la personalità e la dignità umana, ridare valore
alla responsabilità personale, proclamare il primato dell’amore del prossimo. Tutto ciò è in
sostanza cristianesimo e solo dal cristianesimo può trarre forza e vigore ogni azione diretta a sì
nobile fine.
La civiltà cristiana, per quello che ha realizzato di bene nel mondo, è tutta fondata sull’amore
del prossimo. Tutto ciò che vi contraddice deriva dall’egoismo dell’uomo. La penetrazione dello
spirito cristiano nei rapporti sociali è un ideale altissimo, che deve spingere i cattolici a lavorare e
a lottare sul terreno politico-sociale, nazionale e internazionale”.
Sono parole che Adriano Olivetti avrebbe sottoscritto in pieno. Anche dal seguente profondo
pensiero, espresso nella sua principale opera sociologica (“La società sua natura e leggi”), si
capisce come secondo Sturzo ogni elemento sociale – e quindi anche il
capitalismo – per porsi in maniera positiva e costruttiva al servizio
dell’uomo, doveva avere un forte contenuto morale,
doveva cioè rispettare i valori fondamentali del cristianesimo: “La base della vita individuale e
della vita sociale è identica: conoscenza e amore. È impossibile concepire una società senza questo
binomio (…) Non può darsi perfezione umana senza la verità, che è l’oggetto della conoscenza, e
senza il bene, che è l’oggetto della volontà. Ogni elemento sociale, se non è trasformato in verità e
amore, non ha valore”.
Un sistema economico dominato dal conflitto fra capitale e lavoro o sullo sfruttamento del
primo sul secondo, non importa se in mano pubblica o privata, non può avere valore e non può
quindi creare valore. Pertanto tutto il pensiero economico sturziano si fondava sulla solida base
morale del cristianesimo. È poi interessante il suo ammonimento contro chi desiderava tirare
l’acqua al proprio mulino nell’interpretare la dottrina sociale della Chiesa. Il 18 marzo 1939,
in un articolo pubblicato sul quotidiano “Il Lavoro” di Lugano dal titolo “Quadragesimo anno
e Divini Redemptoris”, egli scriveva:
“Non mi pare esigere troppo che a fianco della giusta critica e autorevole condanna del
socialismo marxista e del comunismo ateo, si parlasse anche un po’ del capitalismo anonimo e
sfruttatore. Ma, secondo me, mentre è un dovere mettere in guardia gli operai per non correre
dietro a teorie pericolose e condannate dalla ragione naturale e dalla morale cristiana, è un più
pressante dovere attuare quel che le encicliche sociali dei papi suggeriscono o comandano per il
bene della classe operaia in nome della giustizia e della carità.
Se dal lato dei padroni ci fosse un po’ più di giustizia; se dal lato dei governi ci fosse più premura
a sviluppare il lato sociale degli organismi professionali e corporativi per migliorare la legislazione
assicurativa; a rendere meno acuta la crisi di disoccupazione; a diminuire le spese militari
improduttive per migliorare la produzione e i commerci, allora ci sarebbero meno motivi per gli
agitatori socialisti e comunisti a eccitare le masse e a monopolizzarne le rivendicazioni.
Le due encicliche di Pio XI hanno i due aspetti: critica e costruzione; insegnamenti e pratica;
condanne ed esortazioni. Non bisogna pigliare solo quello che ci piace: i padroni prendono la
condanna del socialismo e del comunismo; gli operai prendono le proposte pratiche sui salari, il
giusto prezzo, le unioni professionali e così via. Solo nell’integrità dottrinale e nell’esecuzione
pratica si onorerà la memoria di Pio XI e si creerà tra i cattolici lo spirito e la realtà cristianosociale”.

IL CAPITALISMO PERICOLOSO E IL CAPITALISMO VIRTUOSO

È bene ricordare che la “Quadragesimo anno” del 1931 sottolineava la grande importanza e
validità di una proposta-cardine della “Rerum novarum” di Leone XIII e che il Partito
Popolare Italiano tentò invano nel 1920 di realizzare con una legge sull’azionariato dei
lavoratori. L’Enciclica di Pio XI giustamente diceva: “Se quel che più conta – l’intelligenza, il
capitale e il lavoro – non si associano, quasi a formare una cosa sola, l’umana attività non può
produrre i suoi frutti”.
Alla fine della seconda guerra mondiale l’attuazione di questo principio fondamentale (la
stretta alleanza fra capitale e lavoro) veniva considerato da Sturzo come una condizione per la
realizzazione di una vera pace a livello mondiale: “Il problema della pace,
che deve seguire questa guerra, sarà un problema di organizzazione
economica sul piano internazionale o non vi sarà pace.
Il capitale e il lavoro dovranno collaborare per trovare una giusta soluzione, abolendo il capitale
anonimo e irresponsabile, e dirigendo la produzione e l’occupazione verso grandi lavori di
ricostruzione per il benessere generale”.
Negli anni ’50 Sturzo ritornò più volte sul capitalismo pericoloso (quello anonimo, invadente,
oppressivo, speculativo) e sul capitalismo virtuoso (quello popolare e partecipativo, funzionante
in un sistema di vera democrazia economica, qualità indispensabile per avere un sistema di vera
democrazia politica). In piena sintonia con Olivetti, anche Sturzo avrebbe detto che l’impresa
privata poteva rivelarsi “fabbrica di bene” solo se inquadrata in un sistema capitalistico
popolare e partecipativo, cioè il capitalismo di tutti auspicato da Leone XIII nel lontano 1891
(“tutti proprietari non tutti proletari”). Ma certamente non proprietari del capitalismo di carta
oggi rampante in seguito all’invenzione di prodotti finanziari puramente speculativi, che nulla
hanno a che fare con il sostegno dell’economia reale. Concetti poi ripresi e approfonditi da altre
encicliche formidabili come la “Mater et magistra”, la “Populorum progressio”, la “Gaudium
et spes”, la “Centesimus annus”, la “Caritas in veritate” e dalle recenti “esortazioni” di Papa
Francesco. È un prezioso patrimonio culturale rimasto sulla carta e che ancora attende – da ben
128 anni! – di essere tradotto in pratica…
Altro punto di incontro fra le due “anime gemelle” riguarda il principio di sussidiarietà,
“coniugato” da Sturzo con la sua visione municipalista e da Olivetti con la sua visione
comunitaria, visioni entrambe finalizzate a difendere l’autonomia creativa, organizzativa e
decisionale del singolo comune (Sturzo) e della singola comunità (Olivetti) contro l’invadenza e
l’incompetenza – se non altro per ragioni di “distanza” – dello Stato. Per sua natura questo è
incapace di gestire il “particolare” della vita locale che può essere ben conosciuto solo da chi
vive vicino alle esigenze e ai problemi dei cittadini. È la democrazia dal basso che nella visione
sturziana e olivettiana va inquadrata in un sistema federale, intelligente gestore del
decentramento amministrativo. Purtroppo l’abilità di Sturzo nel gestire per ben 15 anni il suo
comune e l’abilità di Olivetti nel gestire la sua comunità di Ivrea e quelle nascenti di Pozzuoli e
Matera non hanno fatto scuola in un Paese dominato dal centralismo invadente e inefficiente
dello Stato. Ma possono ancora essere di esempio e di insegnamento per le prossime generazioni
chiamate a riparare i guasti dello statalismo e del liberismo selvaggio. Le buone “medicine”
esistono, ci dicono da tempo Luigi Sturzo e Adriano Olivetti. Un nuovo partito di vera e coerente
ispirazione cristiana non può farne a meno. L’Italia (e non solo) ne ha un gran bisogno!

Giovanni Palladino
Segretario Generale dell’Associazione di Cultura Politica “Servire l’Italia”

 

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