Perché – a maggior ragione, una volta che fosse acquisita l’autonomia “differenziata” di Regione Lombardia – ad esempio, Brescia, la “Leonessa d’Italia”, secondo la logica dei “Padroni in casa nostra”, dovrebbe stare al gioco – o al giogo – della conurbazione metropolitana milanese che arriva a lambire e forse gia’ ad invadere la stessa Bergamo?
E Verona che tributo dovrebbe pagare a Venezia?
E se insieme, Brescia e Verona, scoprissero l’opportunità di valorizzare le rispettive similitudini in una sorta di ideale “Comunità del Garda”, neanche così tanto ipotetica, talche’, fin da anni lontani, qualcuno aveva gia’ ipotizzato una sorta di Regione intermedia tra Lombardia e Veneto?
Ovviamente si tratta di un discorso del tutto ipotetico, ma, a suo modo, istruttivo.
E come la devono mettere Torino ed il Piemonte nei confronti di Milano e Lombardia che le Olimpiadi se le fanno da sole e si cuccano pure il “Salone dell’auto”?
Se la logica delle autonomie non è espressamente diretta a rafforzare l’unita’ nazionale, ad arricchire la consapevolezza della nostra comune identità storica e culturale, a concorrere ad un giusto ed equilibrato sentimento, diciamo pure, di orgoglio nazionale, diventa un cammino perverso e pericoloso.
Si tratta, anche qui, della regola generale di saper comporre – e, con ciò, legittimare – interessi particolari nell’orizzonte del comune e sovra-ordinato interesse generale del Paese.
La retorica dei “Padroni in casa nostra” è, al contrario, di per se’ esiziale per gli stessi presupposti di ogni possibile ordinamento democratico.
In effetti, le autonomie regionali dallo Stato centrale, come le concepisce la Lega, sono funzionali a riprodurre tanti centralismi locali, quante sono le Regioni, da governare in modo verticistico.
Dove si ferma la mannaia della “padronanza”?
Dove sta scritto che debba arrestarsi al confine delle singole Regioni o non possa poi, di volta in volta, calare impietosa su assetti territoriali, via via più circoscritti, cosicché dell’Italia ne facciamo uno spezzatino?
O ci mettiamo il cuore in pace e diamo per scontato che ai “padroni in casa nostra” – salvo, appunto, definirne la scansione territoriale – riconosciamo la facoltà di esercitare un dominio “verticistico”
che deleghiamo loro volentieri oppure e’ anche peggio, se qualcuno pensasse di invocare comunque il valore della democrazia e della liberta’ personale, affidandone la promozione ad una logica del genere.
Nel primo caso, assisteremmo allo stabilirsi sul territorio di una serie di più o meno piccoli “principati” in cui il potere verrebbe gestito non certo in modo autoritativo, dittatoriale o vessatorio, bensi’ piu’ semplicemente secondo la “discrezionalita”’ del “principe” che, in virtu’ di quel tanto di link sentimentale che il populismo sempre prevede nei confronti del maschio “alpha”, può, senza troppe forzature, in maniera “soft”, assorbire o assecondare, disinnescare o blandire, sopire o soddisfare le istanze di un corpo sociale addomesticato, se non addirittura reso servile.
Per chi accettasse – e ce n’e’ in abbondanza – di scambiare libertà per sicurezza e quieto vivere, potrebbe essere una soluzione perfino non disprezzabile.
Se poi qualcuno immaginasse, invece, che libertà personale e democrazia possano convivere con la condizione di “padrone in casa propria”, cadrebbe manifestamente nell’assurdo.
In linea del tutto astratta, una vicenda del
genere esigerebbe che tale condizione potesse essere di tutti e di ciascuno, cosicché si passerebbe dalla spezzatino al “frullato”.
Il dominio di ogni “padroncino” finirebbe per coincidere con il “fortino” di casa propria; alla fin fine, una sorta di bunker armato ed assediato da diffidenze, gelosie, timori e sospetti incrociati che renderebbero la vita di questo inferno concentrazionario francamente improba.
Ciascuno sarebbe “padrone” esclusivamente delle proprie paure e dei propri rancori, cioè prigioniero di se stesso e questa è la peggior galera possibile.
Del resto, che l’intento sia – loro stessi lo sappiamo o meno – “verticistico”, lo dimostra il fatto che, se da un lato invocano le “autonomie istituzionali” che, a canne d’organo, discendono dai livelli superiori dello Stato a quelli intermedi e locali, dall’altro apertamente osteggiano quelle “autonomie funzionali” che tagliano orizzontalmente il campo e, in particolare con il vasto mondo del Terzo Settore, concorrono a creare i presupposti di quella coesione civile che funziona da addensante della società “liquida” e favorisce, dunque, partecipazione e piena cittadinanza, piuttosto che assuefazione ad adattarsi acriticamente o addirittura ad obbedire al potere comunque costituito.
Domenico Galbiati

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