Molti conoscono il prologo del libro di Qoelet.

“Vanità delle vanità, dice Qoelet, vanità delle vanità: tutto è vanità.
Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? …non c’è niente di nuovo sotto il sole. C’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Ecco, questa è una novità»? …. Nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso quelli che verranno in seguito. ….Mi sono proposto di ricercare ed esplorare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. Questa è un’occupazione gravosa che Dio ha dato agli uomini, perché vi si affatichino….Pensavo e dicevo fra me: «Ecco, io sono cresciuto e avanzato in sapienza più di quanti regnarono prima di me a Gerusalemme. La mia mente ha curato molto la sapienza e la scienza». Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho capito che anche questo è un correre dietro al vento. Infatti:
molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere aumenta il dolore….”

Non è un inno all’ignoranza o alla disperazione, ma la lucida consapevolezza che acquisire la conoscenza  – magari attraverso la tecno-scienza – sui meccanismi più profondi della vita dell’uomo, come le scoperte della genetica e delle neuroscienze, gli scenari incalzanti del cosiddetto “trans-postumano”,  l’ intelligenza artificiale,  la robotica umanoide, l’interpolazione uomo-macchina, ma anche la possibilità di rallentare il decorso delle malattie, quasi interrompendolo, precipita l’uomo e la società tutta in una spirale di dolore disperato – dopo l’inevitabile euforia gioiosa che accompagna la conquiste del sapere.

Dolore disperato, perché poter manipolare il nascere e il morire e lo stesso modo del pensare, aumenta la necessità di una comprensione sistemica del TUTTO che ci circonda e con il quale siamo intimamente interconnessi, comprensione che ci sfugge da ogni dove, per oggettiva complessità o forse- ancor più drammaticamente – perchè è un sapere che non può trovare le sue coordinate di comprensione solo nella logica intra-mondana, l’unica che siamo in grado di conoscere.

Cos’è, se non “dolore disperato”, la volontà di scegliere la propria distruzione, anziché condividere in una relazione interpersonale la propria tragica sofferenza determinata propria da quelle tecniche di cui siamo orgogliosi e che prolungano in un limbo lunghissimo  condizioni di vita che non potranno essere recuperate alla piena autonomia?

Nell’orizzonte solo intra-mondano del nostro vivere, l’autonomia individuale, sorretta dalla potenza del nostro corpo biologico, di cui la libertà di giudizio e di azione sono la più alta espressione, è l’unica valida condizione accettabile: condannati a non poterci mai riposare, a dover essere sempre efficienti “nel corpo” per sopportare il peso di una esistenza che non trova un senso in grado di lenire il gemito di dolore che risuona sordo nella nostra mente.

Dolore che può essere oscurato dalle nostre eccitazioni mondane, dalle più banali a quelle legate alla straordinaria contentezza di sentirsi come dio, dopo avergli rubato il “fuoco” dei meccanismi della vita e, tra breve, del dominio addirittura sul pensare.

Oscurato, non tolto: e ci tormenta  in continuazione, come per Ugolino nella Torre della Muda, in attesa della morte, e che vede i suoi figli morire accanto a lui: dalla Torre non si può scappare.

E così dopo aver tentato invano di sconfiggere la morte, la soluzione ci sembra quella di favorirla, anticipandola, illudendoci così di poterla vincere.

Di fronte a tanto disperato dolore, è necessario un religioso e rispettoso silenzio.

Ignazio “Cito” Okamoto , è morto a 54 anni,  pochi giorni fa, dopo 31 anni di coma, assistito sempre, a casa,  dai genitori che non lo hanno mai abbandonato, pur sapendo della irreversibilità della sua condizione di coma, procurato involontariamente da quella meravigliosa tecno-medicina che, subito dopo l’incidente, era riuscita a tenerlo in vita. Il padre e la madre si sono “sacrificati” per lui per 31 anni!  “Forse saremmo stati anche incoscienti, ma l’amore per nostro figlio ha prevalso sempre su tutto. Ho imparato da mio padre che la perdita di un figlio è la cosa più atroce che possa accadere a dei genitori.”

Aiutati certo da volontari, da quel  circuito di prossimità umana – le “tuniche di pelle” date ad Adamo ed Eva all’uscita del Paradiso Terrestre, perché non fossero atterriti dalla loro impotente nudità –  che ha generato un po’ di umano conforto , così che l’aiuto istituzionale potesse contribuire a lenire la fatica e il dolore di quei genitori e di Ignazio, proprio attraverso  la tecnica a servizio  – questa volta – dell’umano limite: ma, mamma e papà di Ignazio, avevano di sicuro, nella loro mente, uno squarcio attraverso il quale avevano visto qualcosa al di là dell’orizzonte intra-mondano della loro vita, qualcosa magari di indefinito o di visionariamente luminoso, cui tendere per generare le energie di cui avevano bisogno

Anche verso di loro e il dolore da loro sopportato, è necessario un religioso e rispettoso silenzio: e nessuno si azzardi, nemmeno per un attimo, a pensare che hanno fatto violenza alla libertà del loro figlio, “tenuto in vita” dal loro amore.

L’amore è una forza “brutale” irriducibile ai confini dell’intra-mondano : “tu ne vestisti | queste misere carni, e tu le spoglia” dicevano i figli di Ugolino al loro padre, sacrificandosi per lui, in un impeto di incomprensibile amore.

Non necessariamente capace, da solo, di squarciarne la cappa di razionalità disperata che ci affligge, ma coessenziale al nostro stesso esistere. Un neonato, nutrito, ma non “amato”, muore: e le umane carezze, la voce della mamma, i rumori e le luci del mondo sono le ombre vivide attraverso cui prende forma quell’amore interpersonale e quel legame con il mondo naturale che ci circonda e che lo tiene in vita.

Il desiderio e il ricordo di persone amate hanno tenuto in vita milioni di esistenze disperate, nel corso dei secoli.

Se facciamo silenzio, ci accorgeremmo che anche in noi, anche in pieno benessere e autonomia, il desiderio lancinante di amore è il vero motore del nostro vivere. La conoscenza e la tecno-scienza va quindi fermata?O vanno condannati quanti non trovano un varco alla prigione disperata in cui ci siamo volontariamente richiusi e che ha tolto il “cielo sopra Berlino”? Possiamo forse normare qualcosa che è stato tolto dal nostro orizzonte di comprensione?

Ci attende una lunga e desolata traversata nel deserto, per “ri-trovare” la terra promessa: in quanti vogliono lasciare il “paese d’Egitto” pieno di delizie e di conformistici agi, per camminare smarriti nel deserto?

Non c’è però nessuna misericordia per chi specula sul dramma umano e angoscioso di chi soffre nel dolore chiuso nell’orizzonte intra-mondano senza intravedere vie d’uscita, fino a desiderare la morte: Marco Cappato deve dimostrare agli uomini il suo “disinteressato amore” che aveva verso il povero DJ Fabo, accettando stoicamente condanne , magari ingiuste: per amore, questo e altro! Per toglierci il sospetto che più che l’amore, è stato mosso da interessi, magari egoistici o – peggio ancora – di visibilità mediatica e politica, o magari di portavoce inconsapevole di “lobbies” terribilmente potenti: di solito, chi ama davvero, lo fa in silenzio.

Va cercato un difficile equilibrio normativo attorno al tema della “proporzionalità delle cure”, cercando di costruire assieme ai medici una cultura di attenzione e cura alla vita, che sappia però far sorgere naturalmente in tutti il senso del limite, da condividere all’interno della nostra società: senso del limite e della proporzionalità delle cure che vale non solo per le situazioni gravissime, ma paradossalmente deve valere soprattutto per le tante pratiche di mercimonio della salute che hanno trasformato la sanità in uno spaventoso market  genuflesso a Mammona, dove solo ai disperati, invece che l’accesso, si offre l’oblio.

Proporzionalità delle cure e non “buona morte”, che è terminologia offensiva per ogni vivente: la morte è antinomica al vivere, e a noi è dato solo l’orizzonte del vivere, dal momento che la morte rende impossibile l’esistere, l’unico orizzonte a noi razionalmente conoscibile.

Ai medici non è mai stato dato il potere sulla morte: per quello si usavano i carnefici.

Vanno chiamati a collaborare attivamente per ridefinire il confine di una scienza, quella medica, attraverso un faticoso e doloroso esercizio di confronto continuo con il limite e con l’altro, nella quotidiana concretezza di scelte difficili, da condividere assieme al malato, sulle logiche e prospettive dei singoli atti di cura che, in taluni frangenti, potrebbero essere sproporzionati, per l’involontaria sofferenza che potrebbero generare nel tempo.

L’aumentata potenza  di cura, in assenza di una comprensione sistemica delle conseguenze dei singoli atti, sta aumentando a dismisura il dolore e l’affanno, preconizzato da Qoelet: non risolvibile con Tweet o scorciatoie sbrigative, ma solo con una “lunga marcia nel deserto”, non per cercare certezze che non avremo, ma per trovare – nel silenzio– quel refolo che ci può indicare la strada attraverso cui  squarciare la cappa dell’intra-mondano che rischia di uccidere l’umanità intera, e non solo quei poveri fratelli, soli, disperati e sofferenti, tenuti in vita dalla nostra tecno-scienza, agita  prima di essere stata pensata.

E alla fine troveremo che la nostra sofferenza a volte genera “senso” nella vita degli altri.

Massimo Molteni

Immagine utilizzata: Shutterstock

 

 

 

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