35 anni fa morì Enrico Berlinguer. Le circostanze furono drammatiche perché il segretario del più grande partito comunista europeo si spense a seguito di un malore che lo colpì durante un comizio a Padova. Grande la commozione per una scomparsa avvenuta in diretta tv, nel pieno di quella campagna intitolata la “ questione morale”.

Berlinguer l’aveva avviata come giustificazione per interrompere il confronto con il mondo democratico riformista, compreso quello cattolico, dopo la morte di Aldo Moro.

La questione morale berlingueriana, anticipazione politica di quella che sarebbe stata Mani pulite, aveva dei limiti, come quelli dell’intera vicenda giudiziaria da cui venne poi travolta la Dc; ma anche lo stesso Partito comunista.

Intanto, perché riguardava solo gli altri. Non coinvolgeva, e ce ne sarebbe stato invece bisogno, la gestione del potere da parte dei comunisti e dei suoi amministratori regionali e locali e di tutto quel sistema di presenza economica e sociale che il Pci aveva costruito nell’arco di quarant’anni.  Successive vicende, nel corso di Mani pulite e dopo, serviranno a scoperchiare, ma solo in parte,  una realtà tenace, mai completamente superata, neppure nel corso delle più tarde esperienze dei  Ds e del Pd.

L’ultima fase dell’esperienza di Enrico Berlinguer copriva pure  la grande difficoltà, nonostante le dichiarazioni ufficiali, nel portare a compimento il completo trasferimento su di un piano pienamente autonomo le proprie prospettive. Non a caso, il Pci restò in mezzo al guado per altri sei anni, fino alla caduta del Muro di Berlino.

Michail Sergeevič Gorbačëv, rappresentante sovietico ai funerali di Berlinguer del 1984, era ancora in maturazione, forzatamente costretto a convivere con le vecchie e condizionanti cariatidi del comunismo russo.

Anche allora, questioni internazionali si intrecciavano con quelle del nostro Paese e le dinamiche interne al Pci.

C’è da chiedersi quanto le mancate trasformazioni necessarie sia alla Dc, sia al comunismo italiano non abbiano finito per influire e condizionarsi a vicenda e portare, così, a quella che chiamiamo la fine della Prima repubblica.

Al momento della sua morte, Berlinguer non era nella condizione di liberarsi pienamente dalla tutela dell’allora Unione Sovietica,  ancora in grado di mobilitare uomini e mezzi per una provocare una grave scissione nel Pci.

Enrico Berlinguer, del resto cresciuto e formato con quel convincimento, preferì conservare l’unità e, sostanzialmente,  dovette limitarsi a barcamenarsi dopo l’uscita dalla maggioranza parlamentare,  preoccupato com’era dall’avanzata del craxismo, concorrente temibile sul piano del pensiero socialista e, ancora di più, su quello della gestione del potere.

Intanto, avanzavano nuove questioni economiche e sociali, i sistemi produttivi ed il lavoro si stavano trasformando, inediti fenomeni erano in corso nel ceto medio e nella classe operaia,  sindacati e categorie di rappresentanza intermedie mostravano già preoccupanti  segnali di tenuta.

Si era nel pieno dell’era del neo liberismo di Reagan e della signora Thatcher,  decisamente indirizzato con piglio e sostanza nuova sulle liberalizzazioni, sulla riduzione delle tasse e dei tassi d’interesse, determinato ad alzare il livello di confronto e di sfida con l’Unione Sovietica.

Non era certamente facile comprendere quel che avveniva e definire una nuova strategia per la sinistra italiana, e non solo per essa.

Enrico Berlinguer nel 1984 scomparve al culmine di una sua evoluzione e di quella del proprio partito, oltre cui probabilmente non sarebbe stato possibile andare. Rappresentò la classica figura di cerniera tra un’epoca e un’altra. Troppo radicata nella precedente per avviare la successiva.

Di Enrico Berlinguer la sinistra seppe prendere solo la parte iconografica. Si limitò ad utilizzarlo come simbolo.  Probabilmente intenzionata a proseguire nel cambiamento, ma senza rivelarsi all’altezza della sfida posta dai mutamenti in corso nel mondo e in Italia. Così, è ancora in cerca d’autore.

Giancarlo Infante

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