Questo intervento di Alessandro Diotallevi segue la pubblicazione di un recente articolo che dava conto della posizioni delle Acli in materia di colf (CLICCA QUI

Con le Acli, da parte di chi si dichiari cristiano e di chi abbia a cuore comunque le sorti dei lavoratori e delle lavoratrici, si deve proporre anche una eventuale riflessione critica in una prospettiva solidaristica ed amichevole. Il progresso della protezione legale del lavoro si è retto sulle gambe della coraggiosa testimonianza che questa associazione ha riservato (oggi è facile) ai diritti, cioè alla difesa delle persone nell’atto di contribuire con il lavoro alla crescita del Paese.

Ma, sbrigato il compito di rendere omaggio non rituale a questa associazione, qualche riflessione si deve pur fare.

Acli colf si occupa della protezione sociale contrattuale delle collaboratrici e dei collaboratori familiari. Sappiamo tutti che stato un passato da non dimenticare nel quale queste persone non godevano di diritti, si chiedeva loro, anzi, le si obbligava a lavorare con le categorie della prestazione lavorativa ordinaria (orari infiniti, retribuzioni misere, riposi ridotti all’osso) e, contemporaneamente, si pretendeva che dimostrassero gratitudine. Un po’ come è avvenuto in anni passati con gli immigrati. In certi contesti produttivi hanno lavorato senza protezione contrattuale, hanno contribuito alla competitività e alla ricchezza del sistema paese e, per quanto possibile, sono stati privati di ogni diritto.

Sopravvivono plaghe di maltrattamento ma, si deve riconoscere, che l’azione delle associazioni rappresenta ha riscattato queste persone dalla loro condizione di sfruttamento facendole approdare ad una condizione di eguaglianza di trattamento con le risorse equivalenti italiane (alcune delle quali, non facciamo finta di non saperlo, hanno subito lo stesso destino).

Ora, Acli Colf, un po’ come le federazioni sindacali ha un punto di vista orientato agli obiettivi dei suoi iscritti/e, cioè al consolidamento e al miglioramento del loro trattamento contrattuale.

Questo va bene, ma ho il netto convincimento che, come in altri ambiti, si faccia giustizia (in termini di equità sociale beninteso) da una parte e più o meno consapevolmente si creino delle conseguenze ingiuste. Vi direte, verso chi?

Con tutta la difficoltà di fare un’affermazione di questo genere prendo ispirazione dal protocollo del luglio del 93 e dalle osservazioni svolte (1998) sul suo funzionamento per dire che la contrattazione ha fatto registrare, nel tempo, “una certa impreparazione culturale dei soggetti negoziali”.

Nel caso della contrattazione che ha portato all’ampiamento delle tutele delle attività di collaborazione familiare, per esempio, non si è tenuto conto del fatto che le prestazioni lavorative insistono, per l’appunto, in un contesto qualificato, la famiglia.

Chi ritenga che la famiglia sia assimilabile all’ordinaria classificazione lavoristica di datore di lavoro e di luogo della prestazione di lavoro, per certo non condividerà il tentativo che compio di superare una certa impreparazione culturale, di imprimere in un ambito specifico una svolta che tenga insieme le ragioni e i diritti di tutte le parti contrattuali, rispettandone la natura e la funzione sociale.

Molto semplificando, quel paradigma che contraddistingue il diritto del lavoro secondo il quale c’è un soggetto forte, il datore di lavoro, e un soggetto debole, il lavoratore/lavoratrice, che ha fatto gemmare e crescere tutti gli istituti del rapporto di lavoro, deve essere riesaminato per ciò che concerne una prestazione di lavoro che si svolge all’interno di una famiglia.

Stamattina Leonardo Becchetti, in una qualificata chat (la rete di Trieste) osservava, su un terreno evidentemente collaterale che essere anziani, soli e senza aria condizionata e diventata una tragedia.

Mi sento di dire che senza una revisione dei contratti collettivi che contengono le prestazioni di collaborazione familiare la condizione di tragedia riguarda numerosissime famiglie e persone (quante? Non sarà difficile censirle se si vuole essere è qui e trasparenti).

Poiché questo è solo uno spunto di riflessione, dal quale peraltro non recedere con alzata di spalle, mi limito a dire che lo squilibrio che originariamente giustificava il diritto del lavoro (che registrava la posizione dominante del datore di lavoro rispetto a quella del prestatore/prestatrice di lavoro) oggi in migliaia di circostanze vede rovesciate le rispettive condizioni.

Non voglio indugiare sulla teoria. Quando il datore di lavoro che ha bisogno di una prestazione di collaborazione familiare riceve una pensione sociale di 600 € ed eventualmente una indennità aggiuntiva, per il proprio stato di salute, di 300/400 €, e il collaboratore o badante ha un trattamento economico intorno ai 1300 € netti (in molti casi con l’aggiunta di vitto e alloggio) oltre alla copertura contributiva (sacrosanta), fatti salvi gli aiuti familiari (se disponibili), ecco che l’apparenza di dominanza, sotto il profilo economico, diventa realtà di sudditanza. Ma questo è niente. In una organizzazione del lavoro, è chiaro che molti istituti sono compatibili con gli interessi della produzione e quelli, per l’appunto dei lavoratori. Ma in una famiglia, quando il lavoratore/lavoratrice prende permessi, va in ferie, di staglia in quelle case una vera e propria immagine di tragedia. Per non dire che la prestazione del collaboratore familiare non adeguatamente descritta dal punto di vista contrattuale (per cui le si applicano le declaratorie di qualsiasi altra prestazione di lavoro) sconfina spesso su un versante molto poco indagato, quello della prevaricazione. Un esempio per tutto: la continua proposizione del ricatto di abbandonare il lavoro ove non si ottenga quanto si chiede anche ingiustamente (e non c’è nessuna istanza di composizione bonaria, nessuna istanza di mediazione che si possa attivare). Senza contare che famiglia le persone soffrono di una concorrenza sleale da parte del mercato nero: queste risorse invocano, sovente, il licenziamento per approfittare delle giuste leggi di protezione dei lavoratori (indennità, assistenza) per cercare e trovare occupazione negli anfratti del consistente lavoro nero.

Molto c’è da dire, ma una cosa in particolare riguarda le associazioni e i sindacati: la protezione di cui questa categoria di lavoratori/lavoratrici riceve nelle sedi giudiziarie. Se il povero vecchietto o la famiglia buona e benevola non ha adempiuto alle procedure amministrative del lavoro (che sono tipiche delle imprese) spesso soccombono in giudizio, mentre, associazioni e sindacati ricevono quanto a loro dovuto sulla base di ciò che è liquidato, in termini di spese giudiziali, dai giudici.

Sotto l’apparenza di una questione minore, spero di aver provato che si tratta di una questione che va affrontata in campo aperto, non solo sindacale e associativo ma anche legislativo. Questo se si vuole che l’isonomia (la giustizia reale) governi le sorti delle nostre famiglie e di tutti coloro che danno lavoro e hanno diritto ad una protezione qualificata e adeguatamente normata.

Amici e amiche delle Acli noi siamo qui pronti e pronte a lavorare.

Alessandro Diotallevi

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