Il davvero pregevole intervento di Antonio Secchi ( CLICCA QUI ) ha offerto numerosi spunti per interpretare la complessa figura di Aldo Moro. In particolare, per cogliere nella sua spiritualità e nella sua Fede la spiegazione di un’intera vita dedicata all’impegno politico sulla base di una scelta per la libertà e la democrazia d’impronta popolare.

Uomo di partito. Sì, fortemente uomo di partito, ma la sua vera dedizione fu quella diretta al raggiungimento di una democrazia “compiuta”. In questo senso, ripensando alla frase “io ci sarò ancora” scritta dalla prigionia brigatista a Benigno Zaccagnini, bene fa Secchi a definirla dal carattere “clamoroso e profetico”.

In effetti, oggi, a tanti anni di distanza dalla scomparsa violenta e violentatrice del leader dc, siamo in quella che si può definire una democrazia compiuta. Purtroppo, però, solo nel senso che la Storia, più che l’opera consapevole di partiti e uomini, ha rimosso quei condizionamenti ideologi  i quali, diretta emanazione del Secondo conflitto mondiale, fortemente condizionarono l’Europa e resero impossibile la pratica dell’alternanza nella guida politica e istituzionale dell’Italia per oltre 45 anni.

Il processo democratico che caratterizzò la cosiddetta Prima repubblica fu spesso, per questo, definito bloccato. Moro disse in un’occasione che la Democrazia cristiana era in qualche modo costretta a farsi alternativa a se stessa perché altre forme di evoluzione del quadro politico non erano oggettivamente possibili. Così, in particolare grazie a lui, s’impose la formula che potremmo definire del confronto e del rinnovamento di cui la segreteria Zaccagnini divenne la più concreta espressione nel pieno dell’attesa della cosiddetta Terza fase che si sarebbe dovuta delineare nella scelta tra le ipotesi che allora sembravano le uniche: il consociativismo o l’alternanza. Nel corso di quella fase più volte si pose un tale questione cui Moro non era in grado di rispondere e la sua vita finì in modo da impedirgli di fornire una risposta.

Giustamente, Antonio Secchi ricorda l’antecedente del ’68. Una stagione che spinse Aldo Moro, primo e a lungo unico dei grandi leader dc di allora, a compiere una lunga e sofferta riflessione sui mutamenti sociali intervenuti in Italia. Punto di svolta per ciò che riguardava i rapporti nel mondo del lavoro, la richiesta di una Scuola e di un’Università rinnovate e, persino, le relazioni interpersonali. Furono soprattutto i fenomeni propri del mondo giovanile e di quelli del lavoro a creare uno spartiacque tra conservatorismo mentale e attitudine all’ascolto.

Lentamente, infatti, divenne evidente quanto il mondo intero si stesse interrogando nel profondo sull’essenza del processo democratico. Spesso le risposte furono fuorvianti e, persino, stravaganti e provocatorie al fine di far deragliare un necessario processo di evoluzione. Stravaganti, tanto per citarne una, fu ad esempio quella di chi agitò il Libretto rosso di Mao senza alcuna aderenza e rispetto delle specificità del mondo Occidentale. Le provocazioni si trasformarono presto in un vero e proprio attacco al quadro democratico. Quello che fece il terrorismo brigatista e quello della destra eversiva, in parte, da vedere pure quali opportunità colte da interessi esterni intenzionati a danneggiare lo sviluppo economico italiano, la sua funzione pacificatrice nel Mediterraneo e a perseguire l’obiettivo di ritardare il processo d’integrazione europeo che si aveva intenzione di fare andare oltre limitati accordi economici e di libero scambio, facendo leva su un’Italia divisa e frastornata.

Come in molti casi di criminalità politica, il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in Via Caetani, confermò l’esistenza di una complessità di ragioni che spiegavano il motivo di un gesto tanto crudele ed insano, per alcuni versi persino inutile, e che facevano da contorno al delirio omicida delle Brigate Rosse.

Anche dopo il 9 maggio 1978 la democrazia italiana continuò a restare bloccata fino alla caduta del Muro di Berlino. Quando cioè, per motivi interni al comunismo reale, venne superata la gran parte delle condizioni determinatesi a seguito degli accordi di Yalta dell’11 febbraio del ’45.

Purtroppo, se con gli inizi degli anni ’90, l’Italia si trovò nelle condizioni di aprire una pagina nuova, questa è rimasta bianca per ciò che riguarda la democrazia sostanziale. Dopo 27 anni, dopo la lunga e modesta esperienza del bipolarismo, a questa conclusione dobbiamo giungere per una serie di ragioni su cui dovrebbe avviarsi una riflessione cui le forze politiche italiane e la società nel suo complesso non danno seguito.

Il sistema politico, ma anche molte istituzioni, viaggiano lungo un percorso del tutto avulso dalle reali dinamiche civili. L’astensionismo rappresenta solo una di queste conferme. Il rapporto tra eletti ed elettori è del tutto inesistente. Quel lungo ed articolato processo di formazione della classe dirigente, quello che faceva emergere le capacità ed i talenti di personaggi come Moro, è stato sostituito da un sistema verticistico, in alcuni casi persino “padronale”, di selezione destinato a tradursi in incapacità ed incertezza legislativa e le conseguenze le vediamo persino sulla vita quotidiana dei cittadini. Le forze vitali della società sono afone e non in grado di esercitare l’adeguata partecipazione alle decisioni che le riguardano. Giovani, donne, pensionati, intere altre categorie economiche e sociali restano sostanzialmente ai margini, a dispetto del loro continuo coinvolgimento verbale e meramente declaratorio. Ancora più lungo dovrebbe essere l’elenco di tutto ciò che porta a riflettere sull’oggi e sul futuro del nostro processo democratico.

E’ vero. Non possiamo sapere cosa ci direbbe oggi Aldo Moro, ma possiamo ragionevolmente ritenere che, come fece in vita, ci solleciterebbe a comprendere le dinamiche vissute nel profondo del tessuto civile e civico e ad impegnarci con una risposta di libertà e di democrazia vissuta sulla base di una sostanza politica d’impronta popolare.

Giancarlo Infante

 

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