“Cattolici, chi?”. È la domanda che pone Giovanni Cominelli riferendosi all’incontro organizzato per il prossimo 18 gennaio  a Milano da quella che continua a presentarsi come una componente cattolica del PD (CLICCA QUI). Un quesito che, però, può ben riguardare molto del resto del lavoro fatto negli ultimi anni per ricomporre una presenza ispirata cristianamente in politica. Un punto interrogativo che certamente si può riferire anche a quanto è in atto per la composizione della Corte costituzionale. Ma su questo ritornerò alla fine.

Non è da oggi che si ragiona sulla possibile ripresa di una forte iniziativa politica da parte di quel composito mondo che, con un uso anche impreciso e disinvolto della terminologia, viene definito cattolico, moderato, centrista, liberal – democratico, e via di seguito. Si tratterebbe di un lungo elenco di tradizioni, sentimenti e attitudini che compongono il quadro di una oggettiva sconfitta che ha portato fin quasi alla scomparsa, o, almeno, ad una sicura irrilevanza di un’ampia area di cultura politica che fu, invece, predominante nella stagione del Centro sinistra della cosiddetta Prima repubblica.

Cattolici, socialisti, repubblicani, liberali, nel senso gobettiano, messi in un angolo. Soprattutto, in virtù di un sistema elettorale che, progressivamente, ha fatto emergere lo spirito della contrapposizione radicalizzata tra gli estremi di due schieramenti. I quali, però, hanno sempre avuto un certo interesse a presentare al proprio interno un “Centro”: compiacente, marginalizzato, strumentalizzato e disarmato. Utile però, al momento del voto, a coprire quelle ampie fasce della società costrette ad uno schierarsi manicheo: subìto, più che condiviso. E questa parvenza è durata per svariati anni, fino a quando il consolidarsi del primo partito effettivo, cioè quello degli astenuti, l’ha affievolita non poco facendo superare tutti i freni ibinitori , sia a destra, sia a sinistra: del “Centro” se ne parla, ma si fa di tutto per non farlo nascere e lasciarlo nel “frigidaire” dell’astensionismo.

E’ anche vero che, come ha dimostrato, ma solo per ben ultima, l’esperienza del voto del settembre 2022, con la meteora rappresentata dal Terzo Polo a trazione Renzi – Calenda, l’opera di radicalizzazione sia stata, del resto, favorita dall’inazione di quelli che potrebbero creare un’alternativa reale del tutto indipendente dai due principali poli contrapposti.

Nel frattempo, due esperimenti sono maturati a livello regionale, quello sardo e quello umbro. Ma non sembra che a livello nazionale se ne faccia molto tesoro e si preferisce considerarli “appendici” delle dinamiche nazionali. Mentre andrebbe colto quanto di più profondo essi rappresentino. A partire dalla considerazione dei territori, della scelta oculata del personale politico e, soprattutto, del sostanziale passo indietro cui sono stati costretti gli apparati di partiti avvertiti lontani, troppo lontani, dalla gente comune.

In raffronto al peso, al ruolo e alla storia dell’esperienza popolare e cristiano democratica, è sempre stato evidente come il costo maggiore dell’ultimo trentennio “bipolare” sia stato pagato più di tutti da quello che chiamiamo il mondo cattolico. Ma che sarebbe meglio definire più correttamente popolare per precisarne l’innesto specifico nella lezione laica che risale a Sturzo, a De Gasperi e a Moro. Cioè improntato ad un convinto impegno pubblico che si allarga e coinvolge tutti coloro interessati dalla ricerca di più solidarietà, sussidiarietà e Giustizia sociale.

E’ tutto quello che noi cerchiamo di sollecitare da quando siamo nati. Senza mai sottrarci ad ogni tentativo in grado di portare ad una rigenerazione ed attualizzazione di un patrimonio cui noi facciamo riferimento. Non per un senso nostalgico, bensì perché consapevoli che esso possa costituire una delle principali ancore di salvezza per un Paese che ha smarrito la via e perso numerosi colpi e posizioni in tutte le graduatorie delle classifiche mondiali che contano.

Abbiamo spesso parlato di alternatività sia alla destra, sia alla sinistra e della riscoperta di un senso di “autonomia” rispetto ai due estremi che caratterizzano l’attuale bipolarizzazione. Autonomia interpretata e vissuta non come un soliloquio, o  un presuntuoso volo pindarico autoreferenziale, quello che altri continuano purtroppo a praticare perché ancora convinti di sviluppare una vocazione maggioritaria. Questa autonomia, per prima cosa, parte dalla consapevolezza della specificità e peculiarità della propria cultura politica di riferimento e dal convincimento di poter interpretare le istanze di un popolo alla ricerca di una nuova vocazione. E sappiamo anche che solo una tale autonomia costituisce il presupposto per sviluppare ogni pur necessario spirito di coalizione il cui obiettivo dev’essere quello della costruzione di un “baricentro” nel Paese: culturale, economico e sociale, prima ancora che elettorale. Ed è per questo che è ovvio superare, quindi, quell’ozio meditabondo del pre – politico o del “rifugio” nel solo impegno sociale cui molti si sono, anche lodevolmente, ma forse troppo esclusivamente, abbandonati nel corso degli ultimi tre decenni.

Per questo ben volentieri credemmo nella rinascita di un’opzione popolare. Quale quella delineata il 25 febbraio di due anni fa quando forte giunse il messaggio da parte di alcuni intenzionati a trarre fino in fondo le conseguenze di una difficoltà di coabitazione nel Pd. Furono suscitate attese in molti gruppi, associazioni e realtà sparse in tutta l’Italia, e da anni in attesa di una rinverdita ripresa del cammino politico. E forte fu l’attenzione da parte dei territori, così come l’intenzione di prendere le distanze da uno dei fenomeni che più ha caratterizzato la stagione iniziata nel ’94 qual è quello del cosiddetto leaderismo.

Da quel febbraio del ’23, mancando una implementazione del progetto, altre iniziative hanno preso le mossa. Tutte animate dalla ricerca del “federatore”. Il che rappresenta un aspetto positivo ed un segno di crescita perché, appunto, nell’epoca del fallace mito del leader, dimostra che si è giunti almeno a prendere atto della necessità di un salto di qualità. credendo in un’aggregazione progressiva, quasi muovendosi per centri concentrici, più che seguendo uno metodo centralistico e verticistico.

Non mancano i rischi. A partire da quello più insidioso rappresentato dal tentativo di rinchiudere il possibile “federatore” in una gabbia sottile, ma robusta e tenace, da parte di chi persiste nei legami con vecchi schemi e con stagionate figure. Schemi e figure, nobili per carità, ma che rischiano di far pagare, anche involontariamente, il prezzo dell’usura del tempo e del mutare di stagione.

Mentre, invece, è necessaria una sintonizzazione con i cambiamenti in atto e una liberazione dai condizionamenti oggettivamente imposti dalla difesa di tante piccole posizioni. Modeste cose che rischiano di lasciare attorno ad un processo importante di rinnovamento il sapore di vecchi metodi e di accreditare, così, il sospetto che, in fondo, si continui ad accettare l’esistente. Invece di partecipare ad un processo che, come abbiamo scritto nel nostro Manifesto fondativo (CLICCA QUI), deve caratterizzare e dare dignità nuova ed originale ad impegno di autentica “trasformazione” della gestione della cosa pubblica. E, quindi, dell’intero sistema politico ed istituzionale, a partire dal ruolo, responsabilità, organizzazione e postura dei partiti… di tutti i partiti oggi sulla scena, abbarbicati attorno alla difesa del sistema bipolare.

Ce lo conferma quello  cui stiamo assistendo in questi giorni in occasione del voto parlamentare per ricomporre la Corte costituzionale. Un’occasione importante per dare voce a tutte le culture giuridiche e politiche presenti nel Paese e rispondere, così, ad una domanda che giunge dal profondo: riportare alla politica e alle istituzioni la vicinanza e la partecipazione dell’intera società civile; nel rispetto e nella valorizzazione della pluralità di tutte le sue ricchezze ed articolazioni senza che i vertici dei partiti si perdano in una mera logica di spartizione.

Agli amici del Pd, anche in questa occasione, dovrebbe dunque essere chiesto conto della difficoltà che sempre più dimostrano nel liberarsi dalla pratica di vecchi metodi e di una sostanziale mancanza di rispetto di altre culture politiche. Le quali, un tale rispetto se lo devono pure meritare avviando un proprio percorso autonomo. Pure a rischio di perdere qualche predellino gentilmente offerto, cui si cerca di aggrapparsi.

Giancarlo Infante

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