Il lungo percorso compiuto da don Luigi Sturzo che lo condurrà il 18 gennaio del 1919 a fondare il Partito Popolare ebbe inizio almeno un quindicennio prima, con lo storico discorso di Caltagirone del 24 dicembre del 1905. In quella occasione, Sturzo manifestò l’intenzione di dar vita a un partito che avesse un respiro nazionale, di ispirazione cristiana, ma nel contempo aconfessionale, laico e autonomo dalle gerarchie. Per questa ragione, il partito che immaginava Sturzo non si sarebbe dovuto fregiare dell’aggettivo cattolico. L’aconfessionalità del progetto sturziano rifiutava alla radice ogni tentazione di fare di un eventuale partito il “braccio secolare” delle gerarchie, ma rigettava anche la pretesa di rappresentare l’unità politica dei cattolici italiani.
Siamo giunti al 18 gennaio del 1919, l’idea diventa fatto. Contro la tendenza a fare dei cattolici la stampella di altre offerte politiche, negoziando seggi, come ad esempio con il Patto Gentiloni relativo alle elezioni del 1913, nasce il Partito Popolare che non era né un partito cattolico, né il partito dei cattolici, ma un partito di cattolici che si appellava «a tutti gli uomini liberi e forti», per dar vita ad un partito autonomo. Ecco come il sacerdote di Caltagirone ricorda la fondazione del partito: «Era mezzanotte quando ci separammo e spontaneamente […] passando davanti la Chiesa dei santi Apostoli picchiammo alla porta: c’era l’adorazione notturna. […] Durante quest’ora di adorazione rievocai tutta la tragedia della mia vita. Non avevo mai chiesto nulla, non cercavo nulla, ero rimasto semplice prete […]. Accettavo la nuova carica di capo del partito popolare con la amarezza nel cuore, ma come un apostolato, come un sacrificio».
L’eredità teorica dell’azione politica sturziana è tutta racchiusa nel termine popolarismo, che si oppone al populismo in forza di una nozione di popolo articolata, dunque plurale, e differenziata al suo interno, tutt’altro che omogenea, refrattaria tanto al paternalismo quanto al leaderismo carismatico che identificano nel capo il buon pastore al quale affidare i destini del gregge. Una teoria politica con la quale il fondatore del Partito Popolare intendeva sfidare i due monopoli: quello dello stato accentratore, tipico della tradizione fintamente liberale italiana, e quello marxista e socialista nel campo operaio. Il popolarismo sturziano vuole combattere entrambi questi monopoli, in nome della libertà, declinata nel campo dell’insegnamento, dell’amministrazione locale, della rappresentanza politica e sindacale e, non ultimo, della diffusione della proprietà e della piccola e media impresa.
Affermando la reciproca indisponibilità della sfera politica e di quella religiosa a lasciarsi strumentalizzare l’una dall’altra, Sturzo ha dimostrato una conoscenza profonda della complessa realtà sociale creatasi con la modernità, nella quale la dimensione del regnum instrumentum religionis si intreccia con quella della religio instrumentum regni. Sturzo rigetta entrambe le derive in nome di una società di per sé eterogenea, plurale, plurarchica, differenziata per funzioni, indisponibile a qualsiasi pretesa monopolistica avanzata da una qualsiasi delle sfere sociali che compongono la società civile, di cui la politica è parte e non sintesi, perché la sintesi è operata dalla coscienza di ciascuna persona.
Diametralmente opposta è stata la proposta politica di Sturzo che si espresse attraverso la fondazione di un partito “di” cattolici e non “dei” cattolici, aperto al contributo di tutte le persone che avrebbero condiviso il programma; è questo il senso del popolarismo che riconosce nel “metodo di libertà” e nel principio di rappresentanza i due irrinunciabili portati del liberalismo e così instaura con esso un rapporto indissolubile.
Come Sturzo aveva compreso bene, quella del laico credente è una missione di servizio, il politico è un civil servant (e non un servitore dello Stato, che per Sturzo è una parte, il nome astratto con il quale intendiamo l’organizzazione della pubblica amministrazione), un rendersi disponibile a partecipare attivamente alla costituzione e alla manutenzione del bene comune, ricorrendo al “metodo di libertà” e al principio di rappresentanza. Proprio da questo, ne discende che un partito che voglia realizzare una progettualità cristianamente ispirata potrà farlo solo immaginando di incarnare in un concreto popolo, fatto di persone libere e forti, alcuni valori, attraverso la realizzazione di determinate politiche che guardino all’interesse di tutti, come scrive Sturzo nel suo manifesto: «senza pregiudizi né preconcetti».
In breve, la proposta popolare non è esclusiva e non chiude le porte ad altre interpretazioni del messaggio cristiano in politica; ma non è neppure sintetica, non pretende cioè di mediare fra sensibilità differenti su questioni temporali e contingenti in cui è naturale che il laicato possa esprimere posizioni differenti. Per questa ragione, porsi come eredi esclusivi dell’eredità sturziana suona un po’ farlocco, sempre che non si intenda rovesciare il popolarismo nel suo contrario, a merce di scambio interna per barattare consensi con posti o prebende, reintroducendo surrettiziamente nel 2025 proprio la logica di quel Patto Gentiloni che Sturzo aveva combattuto e superato nel lontano 1919.
Flavio Felice e Maurizio Serio
Pubblicato su Avvenire