Abbassare il tono, alzare l’ambizione della proposta: politica e giustizia sociale oggi

Mi scuso in partenza: l’intenzione di queste riflessioni è di abbassare il livello del dibattito. Non in termini di qualità, ma in termini di altezza. Oggi in Italia la vera sfida politica è lo scollamento crescente tra il dibattito pubblico e la vita concreta delle persone. Il confronto si svolge troppo spesso in una dimensione astratta, distante, autoreferenziale.

Come possiamo tornare a parlare concretamente, con proposte sensate, a chi fatica a vivere, a chi lavora ma non arriva a fine mese, a chi è scivolato nella povertà assoluta o teme ogni giorno di farlo?

Serve uno sforzo nuovo. Serve una politica che non si limiti a “stare nel dibattito” ma che impari ad abitarlo con responsabilità.

Il partito é uno dei tanti strumenti e in questo senso dobbiamo ricordarci che deve rimanere tale e non un fine. Ciò che conta non è il contenitore – il partito – ma il programma, il contenuto, la visione. Anche la questione del nome di un partito, per quanto simbolica, non dovrebbe mai diventare un tabù: se si mette la politica al centro, tutto il resto si può discutere serenamente.

Il doppio sforzo dell’interlocuzione

Dialogare, oggi, significa imparare a “metabolizzare” le proposte altrui e offrire le proprie perché vengano, a loro volta, metabolizzate. Non basta parlare con chi già ci è vicino per identità o tradizione. Vale anche per il rapporto con il mondo cattolico. Parlare di “popolarismo” non può ridursi a evocare figure storiche come Sturzo o la DC. Quei giganti hanno fatto il loro tempo, con grandezza. Oggi, popolare significa partire dagli ultimi, dai piccoli.

Traducendo l’appello ai liberi e forti oggi chi ha strumenti – ricchezza, conoscenza, educazione – ha la responsabilità morale e politica di agire per chi è oppresso, anche solo dalla propria condizione materiale. È qui che si rinnova, in senso radicale, l’appello: non come retorica nostalgica, ma come necessità di costruire alternative nella fase regressiva che stiamo attraversando, in cui il ceto medio si erode e la povertà assoluta coinvolge il 10% della popolazione.

Ripartire da cinque proposte concrete

È per questo che prima ancora di discutere un nome, occorre discutere un contenuto. Cinque proposte di legge per cinque questioni decisive, che rappresentino veripunti di accesso alla complessità, veri strumenti per toccare e trasformare la realtà.

1.La giustizia fiscale
Un Paese equo tassa la rendita, non il lavoro. A maggior ragione un Paese con il nostro impianto costituzionale. Occorre riequilibrare il sistema fiscale, spostando l’imposizione dal lavoro verso le rendite e favorire le imposte dirette rispetto a quelle indirette. Lo diceva già Don Milani: le imposte indirette colpiscono tutti allo stesso modo, e quindi sono ingiuste. Oggi, grazie alla digitalizzazione e all’interconnessione delle banche dati pubbliche, è finalmente possibile farlo con precisione.

2.La questione salariale
Oggi in Italia il lavoro, per troppe famiglie, non basta più per vivere. Serve ridare forza all’articolo 36 della Costituzione, che garantisce una retribuzione “proporzionata e sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa”. Ma serve anche un salto culturale: il lavoro non è solo quello “dipendente”, il salario non è solo una cifra. È tempo di ridefinire i diritti a partire dalla dignità, non dal contratto

3.La famiglia e la casa
Un nuovo sguardo sulla famiglia deve passare anche dalla casa: dalla sua proprietà alla sua manutenzione. Oggi abitare è una delle frontiere dell’ingiustizia sociale. È urgente immaginare strumenti per rendere l’abitazione un diritto effettivo, non una scommessa o un privilegio.

4.Il reddito di base
Il dibattito pubblico ha massacrato questa proposta, sia con le caricature dei suoi sostenitori sia con gli attacchi ideologici dei suoi detrattori. Ma una politica del reddito di base può rappresentare una piattaforma di libertà e dignità per milioni di persone. Serve il coraggio di riaprire la discussione con serietà, concretezza, visione.

5.La pace
È tempo di rimettere al centro la pace, non come vuota parola, ma come progetto politico concreto. Pace significa difesa, questo non significa discutere di “armi si o armi no”, ma significa soprattutto rivedere il ruolo delle istituzioni: il ministero della difesaper esempio ha la stessa postura istituzionale del passato, nonostante le sfide della difesa siano significativamente cambiate. Serve costruire regole, strumenti, relazioni capaci di prevenire la violenza, ovunque essa si annidi, dalla guerra internazionale alla marginalizzazione urbana. Pensiamo alla proposta di istituire un ministero della pace.

Tommaso D’Angelo

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