“La pace americana è finita” scrive Fareed Zakaria, uno dei più ascoltati  esperti di relazioni internazionali a Washington, in una intervista pubblicata questa settimana su “Le Monde” ( 2 maggio, pag.33).

Il concetto che esprime è semplice: dalla caduta dell’impero sovietico gli Stati Uniti erano diventati i garanti della pace mondiale per il peso decisivo della propria forza militare, politica, economica, e ideologica. Ma le guerre in Iraq e in Afghanistan, la crisi finanziaria esplosa a Wall Street nel 2008 e il ritorno del populismo e dell’isolazionismo del tempo di Trump hanno minato questa egemonia. L’aggressione russa all’Ucraina, secondo Zakaria, è solo una delle conseguenze.

Anche in Fondo Monetario Internazionale, in una nota recente, sostiene che “l’economia del mondo si sta frammentando in blocchi geopolitici e dentro questi ognuno si occupa solo dei problemi interni”. Le conseguenze non possono quindi che essere un aumento del rischio per tutti.

Così per gli stessi Stati Uniti, dove l’inflazione è ai massimi degli ultimi quarant’anni, il disavanzo commerciale cresce ogni anno e il debito pubblico ha assunto dimensioni mostruose. Qui l’economia regge ma la politica balbetta rispetto all’autorevolezza dei “think tanks” che assistevano i Presidenti, al pensiero degli intellettuali, alla vivacità delle grandi scuole economiche. Basta leggere l’ultimo libro di Federico Rampini per rendersene conto (“Suicidio occidentale”, Mondadori 2022)

Così come per la Cina, la seconda economia mondiale e potenza economica in forte ascesa, che deve fare i conti anch’essa con i maggiori costi delle materie prime e dell’energia, con l’inflazione e le bolle immobiliari, con il ritorno dei lockdown che ha già paralizzato città sterminate come Shanghai e bloccato i porti  più trafficati del mondo. La grande crescita cinese con incrementi del PIL a due cifre è già in frenata e qui la politica non balbetta certo ma valuta con grande cautela i rischi di perdere i ricchi mercati orientali occidentali.

Così per l’Europa, proprio quando sembrava dovesse riprendere il suo ruolo la  politica dopo trent’anni di dominio dell’economia.

Ed ecco “riapparire una nuova sfida, questa volta per la sicurezza” come ha definito Macron il problema divenuto improvvisamente il più importante sul tappeto a Bruxelles.  Non basterà certo l’aumento delle spese militari di ciascun Paese membro dell’Unione per affrontare questa sfida perché il tempo della guerra dei trent’anni e della pace di Vestfalia, che garantiva le frontiere nazionali a tutti, è passato da un pezzo.

Oggi Paolo Rumiz, giornalista, scrittore viaggiatore ed aggiungerei anche poeta, scrive un amaro articolo su Repubblica, e parla di “Requiem per l’Europa”, un continente “schiacciato tra due mondi e annoiato dalla pace” e avverte la mancanza di un noi, il segno di un’appartenenza comune dei popoli figli della stessa madre.

Auguriamoci che nel racconto, pur così bello, questa volta abbia prevalso lo sconforto, perché un fronte comune non limitato a linee militari tracciate solo sulle mappe in fondo è possibile.

Una strategia di difesa l’ha chiesta il Presidente Draghi, nel recente bellissimo discorso davanti al Parlamento Europeo quando, insieme ai più cruciali temi che impegnano i governi, ha parlato di “un modello sovranazionale come unico capace di unire gli interessi dei popoli europei e di esercitare influenza su eventi che altrimenti sarebbero fuori dalla loro portata”.

E dopo avere ricordato che la nostra spesa per la sicurezza è circa tre volte quella della Russia, ma si divide in 146 sistemi di difesa, ha detto a chiare lettere che gli investimenti nella difesa devono essere fatti nell’ottica di capacità collettive come Unione.

In fondo, dopo i mercati, l’euro, l’iniziativa comune per i vaccini, le ingenti nuove risorse finanziarie è la difesa comune che può ora mostrare ai cittadini europei “che siamo in grado di guidare una Europa all’altezza dei suoi valori e della sua storia.”

Forse è solo una speranza. Ma anche la speranza è un rischio da correre, come diceva in tempi certo più bui, Georges Bernanos nell’indimenticabile “Diario di un parroco di campagna.”

Guido Puccio

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