Il 55° Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di Papa Francesco (1° gennaio 2022) porta un titolo composito: “Dialogo fra le generazioni, educazione e lavoro: strumenti per edificare una pace duratura”. «Anzitutto, il dialogo tra le generazioni, quale base per la realizzazione di progetti condivisi. In secondo luogo, l’educazione, come fattore di libertà, responsabilità e sviluppo. Infine, il lavoro per una piena realizzazione della dignità umana. Si tratta di tre elementi imprescindibili per dare vita a un patto sociale» (§ 1).

Questi tre temi vengono, in un certo senso, a sviluppare il principio della cultura della cura (la cura gli uni degli altri e del creato), che era il titolo del messaggio omonimo dell’anno scorso e riproduceva l’ideale di una civiltà dell’amore, dell’amore sociale, che è la chiave di un autentico sviluppo: «Per rendere la società più umana, più degna della persona, occorre rivalutare l’amore nella vita sociale – a livello politico, economico, culturale – facendone la norma costante e suprema dell’agire”. In questo quadro, insieme all’importanza dei piccoli gesti quotidiani, l’amore sociale ci spinge a pensare a grandi strategie che arrestino efficacemente il degrado ambientale e incoraggino una cultura della cura che impregni tutta la società» (Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato Si’ (2015), § 231. Si veda anche San Paolo VI, Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 1977: Se vuoi la pace, difendi la vita, § 68).

  1. Dialogo tra le generazioni. Presuppone che le generazioni di persone siano soggetti socialmente distinguibili, che hanno obiettivi loro propri e comportamenti omogenei rispetto agli obiettivi. Diverso è il dire che, nello specifico, «i giovani hanno bisogno dell’esperienza esistenziale, sapienziale e spirituale degli anziani; dall’altro [nello specifico] gli anziani necessitano del sostegno, dell’affetto, della creatività e del dinamismo dei giovani» (§ 2). Si può dire che questo è il dialogo all’interno del popolo di Dio; dialogo sociale come contributo fondamentale per la pace, dal quale può, ad esempio, discendere una risposta condivisa al problema del progresso tecnologico che distrugge posti di lavoro.

Di fronte a questo, non ha senso (come facevano i luddisti nell’ultimo decennio del XVIII Secolo e nei primi decenni del secolo successivo) distruggere le macchine tessili di nuova concezione per evitare che gli aumenti di produttività che esse determinavano riducessero il fabbisogno di lavoro e quindi l’occupazione. Né, oggi, avrebbe senso ostacolare i processi d’innovazione produttiva nei quali le macchine (in senso lato) nuove entranti sostituirebbero l’uso del lavoro (macchine che dovrebbero pur sempre essere prodotte ex-novo). Ciò comporterebbe la riduzione del fabbisogno di lavoro quasi sempre ripetitivo, ma l’aumento di lavoro qualificato, per il quale sono meglio formati o formabili i lavoratori giovani.

A questo punto, ha senso parlare della necessità di un patto sociale per il lavoro, che riduca le ore di lavoro di chi si trova nell’ultima stagione lavorativa (o renda anticipabile per questi l’uscita dal mondo del lavoro) e creare lavoro per i giovani, che hanno il diritto-dovere di lavorare.

  1. Educazione. Si può dire che, della triade educazione/istruzione/formazione, la prima, che ha il còmpito d’insegnare a vivere nel mondo e nella società, prima azione quindi anche per acquisire la cultura del lavoro, fa capo precipuamente alla famiglia – cui dev’essere riconosciuto il ruolo primario nella trasmissione dei valori fondamentali della vita e nell’educazione alla fede e all’amore, ma vede nella scuola e nella società (nelle quali le comunità virtuali hanno ormai una rilevanza molto significativa) soggetti che attivamente compartecipano a questo risultato. La seconda, che ha il còmpito d’insegnare a operare nel mondo e nella società, fa capo precipuamente alla famiglia e alla scuola. La terza, che ha il còmpito di insegnare a fare un lavoro specifico, fa capo alla scuola e al mondo del lavoro: la scuola che attiva corsi di studio disegnati per insegnare un lavoro, un mestiere, rilasciando un titolo di studio riconosciuto dalla società, e il mondo del lavoro (le imprese) che insegna a lavorare attraverso il lavoro; ed è evidente che i due soggetti devono interagire e collaborare intensamente.

La triade sopra considerata non opera sempre; opera se lo sbocco finale del percorso di educazione e d’istruzione è l’accesso al mondo del lavoro; se il percorso attivato è visto come un investimento: un processo pluriennale attraverso il quale si acquisiscono competenze spendibili nel mondo del lavoro. Diverso è il caso in cui l’educazione e l’istruzione siano visti quali beni di consumo, cioè votati a soddisfare un bisogno di acquisizione di conoscenze; un bisogno fine a se stesso e non un processo d’investimento mirato ad acquisire competenze spendibili nel mondo del lavoro.

Ad ogni modo, punto fermo della Dottrina sociale della Chiesa è che «l’educazione integrale dei figli è “dovere gravissimo” e, allo stesso tempo, “diritto primario” dei genitori. Non si tratta solamente di un’incombenza o di un peso, ma anche di un diritto essenziale e insostituibile che sono chiamati a difendere e che nessuno dovrebbe pretendere di togliere loro. Lo Stato offre un servizio educativo in maniera sussidiaria, accompagnando la funzione non delegabile dei genitori, che hanno il diritto di poter scegliere con libertà il tipo di educazione – accessibile e di qualità – che intendono dare ai figli, secondo le proprie convinzioni. La scuola non sostituisce i genitori, bensì è a essi complementare. Questo è un principio basilare: «Qualsiasi altro collaboratore nel processo educativo deve agire in nome dei genitori, con il loro consenso e, in una certa misura, anche su loro incarico» (Papa Francesco, Esortazione apostolica, Amoris Laetitia, 2016, § 84).

Se si apre una frattura fra famiglia e società, tra famiglia e scuola, il patto educativo si rompe e così l’alleanza educativa della società con la famiglia entra in crisi.

In generale, l’intera triade è fondata sulla responsabilità (responsabilità dell’educatore e dell’educando; responsabilità verso se stesso e verso la comunità) e sulla partecipazione. Infatti, le componenti della triade devono confrontarsi con l’apprendimento e questo, se si attua in contesti in cui le persone percepiscono un senso di appartenenza e di partecipazione, è ben diverso, e di livello superiore, rispetto a quello che si può avere in contesti in cui prevale l’individualismo, la freddezza reciproca, l’antagonismo esasperato. Vi è quindi un’importante questione di metodo. Virtuoso è il metodo di un ambiente educativo incentrato sul confronto interattivo docente-discente, in cui il primo insegna ma, allo stesso tempo, ha anche l’interesse a imparare dal secondo; inoltre, ciò deve svilupparsi all’interno di un impegno comunitario di formazione permanente, capace di creare una “comunità educante” nella quale anziani e giovani devono dialogare: ascoltare, confrontarsi e camminare insieme.

Bisogna però tener presente che, a monte delle competenze (il saper fare) non possono non esserci le conoscenze (l’imparare). Le prime hanno un’effettività di breve periodo e chi ne proclama la priorità (tipicamente, negli ultimi tempi, i governi di diversi paesi) ha una visione di un’istruzione diffusa che favorisca la crescita economica quando, proprio oggi, in un’economia con rapido avanzamento tecnologico, le competenze acquisite tendono a divenire rapidamente obsolete e, di conseguenza, ciò che bisognerebbe fare urgentemente sarebbe potenziare le capacità critiche di apprendimento (il saper imparare).

Ancora un’osservazione: alla radice di ogni programma educativo non ci può non essere un atteggiamento di fiducia nella vita, di speranza. Prova ne è che, quando è presente una crisi economica avente riflessi negativi sui livelli di occupazione, è facile vedere una spinta dei disoccupati verso l’aggiornamento della propria formazione lavorativa, se è diffusa l’aspettativa che la crisi sia passeggera; spinta che manca qualora la crisi sia così grave da non far supporre una ripresa in tempi ravvicinati. In effetti, la frequenza dei corsi universitari di perfezionamento presentano un chiaro andamento anticiclico (rispetto all’andamento dell’occupazione), nel primo caso, ma un andamento prociclico, nel secondo.

Un’osservazione a margine. Nel Messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale della Pace per il 2022, è scritto quanto si può facilmente sentire da giornalisti, politici, sindacalisti, imprenditori, finanche economisti: “le spese per l’istruzione non sono spese, ma investimenti”. Ma gli investimenti sono spese come lo sono quelle per consumi: le spese sono somme monetarie che vengono date (o che verranno date in futuro, se ci si finanzia indebitandosi) in cambio di merci o servizi, somme che sono sottratte dall’impiego per comprare qualcosa di diverso e, se c’è qualcosa di alternativo che risponde al proprio interesse cui si deve rinunciare, sono un costo (se non ci fosse altro cui si deve rinunciare, sarebbe una spesa, ma non un costo!). Le spese per consumi come le spese per investimenti concorrono a formare la domanda aggregata (DA); le seconde, una volta messo in funzione il bene produttivo (o l’infrastruttura o i percorsi formativi) acquisito/a/i, concorrono a formare anche l’offerta aggregata (OA). Che sia più importante aumentare la DA o la OA dipende – se obiettivo è aumentare le quantità prodotte, cioè la crescita – da quella fra le due che è la più bassa: aumentare la DA quando è la più alta fra le due non serve (e lo stesso dicasi per l’OA). Ma l’obiettivo da realizzare può essere non la crescita, bensì lo sviluppo (miglioramento qualitativo dell’economia e della società) e allora ci si sposta su una dimensione principalmente qualitativa.

  1. Il lavoro per la piena realizzazione della dignità umana. Il Messaggio qui esaminato non può che confermare il pensiero fortemente segnalato – per lo meno a partire dalla Lettera enciclica giovannea Mater et Magistra (1961), e ancor più dalla Lettera enciclica gianpaolina Laborem Exercens (1981) – dalla Dottrina sociale della Chiesa (DSC), cioè che il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e della donna e per lo sviluppo della società. Per questo occorre che il lavoro sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto della dignità della persona e al servizio del bene comune. Il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale perché non è solo il modo per guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere se stessi.

Però, per la DSC, il lavoro ha da essere: libero, dignitoso, creativo, partecipativo, solidale. In particolare, il lavoro è dignitoso se:

– è decente, di qualità per l’attività svolta, l’ambiente di lavoro, l’autonomia decisionale, l’interazione con i colleghi e con l’organizzazione, la possibilità di realizzare la propria persona, la possibilità di crescita e di miglioramento;

– ha una giusta remunerazione e un’adeguata copertura previdenziale;

– produce cose buone: cose individualmente e socialmente utili; non cose, ma “beni”: non armi o droghe o altre cose non rispettose della vita umana o della salute delle persone;

– rispettoso dell’ambiente naturale.

Se mancano gli aspetti sopra indicati, il lavoro non è tale da promuovere la dignità del lavoratore/ lavoratrice: questi è un “povero che lavora”. Povero non è solo colui che non ha beni disponibili rispetto ai suoi bisogni; e anche colui che non ha un lavoro che gli dia dignità.

Conclusione assai importante: quando la dignità della persona viene rispettata e i suoi diritti sono riconosciuti e garantiti, fioriscono anche la creatività e l’intraprendenza e la persona umana può dispiegare le sue molteplici azioni a favore del bene comune.

Daniele Ciravegna

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