Rispetto a tutte le precedenti esperienze che hanno avuto i cattolici nella politica italiana, ci troviamo di fronte, come ha recentemente osservato Stefano Zamagni, in una fase completamente nuova, anche rispetto alla prima insorgenza populistica, quella dei primi anni Novanta.
È in atto ed è presente infatti nel nostro Paese un processo di secolarizzazione, di scristianizzazione aggressiva, che rende la nostra società molto diversa da quella in cui gli altri tentativi ed esperienze dei cattolici in politica hanno trovato attuazione.
Questo ci pone il problema di un’identità politico-culturale.
Dobbiamo essere consapevoli del fatto che lo stato di salute del cattolicesimo italiano non è migliore di quello della comunità nazionale e tuttavia il cattolicesimo nel nostro Paese non ha ancora del tutto perso l’abitudine a tentare di connettere valori e interessi, e a farlo non solo ciascun per sé, o in pochi, ma anche dialogando in ambiti più ampi, come sta dimostrando in questi mesi di post-lockdown.
Per questa ragione, il cattolicesimo resta una risorsa vitale per la comunità nazionale: far fruttare questa risorsa vitale nella dimensione pubblica significa però evitare la coazione a ripetere gli errori del passato, continuando a pensare che la dispersione delle forze, l’individualismo delle scelte, sia oggi l’unico modo di fare politica da cristiani.
Significa sottrarsi all’ideologia della diaspora, che tanto ha imperversato in quest’ultimo quarto di secolo nel discorso pubblico dei cattolici, significa trarre tutte le necessarie conseguenze, sul piano politiche, dall’impegno a riconnettere ed a ricucire “cattolici del sociale” e “cattolici della morale”, che è stato opportunamente scelto dal cardinale Bassetti come linea-guida della sua presidenza della CEI.
Dobbiamo tornare a scoprire il valore di un impegno coeso, unitario ed efficiente, ripartendo da quel principio filosofico del “distinguere per unire”, di matrice maritainiana, che è stato recentemente ricordato proprio sulle pagine di Politica insieme.
Il processo costituente avviato in questi mesi potrà avere successo, pertanto, soltanto se saprà coinvolgere, nel solco dell’esperienza del popolarismo, tutte le correnti del cattolicesimo democratico, liberale e sociale operanti nel nostro Paese che condividano un progetto di trasformazione del Paese a partire dal “pensiero forte” della Dottrina sociale della Chiesa e dei princìpi della nostra Costituzione.
L’articolato lavoro di elaborazione programmatica costituisce già un primo esercizio concreto di definire un nuovo linguaggio comune, una koiné condivisa basata sulla Dottrina sociale, che più ancora che gli strumenti di comunicazione, è quella che poi crea l’opinione.
Il secondo spunto è quello della domanda politica: a chi si rivolge la nostra proposta politica?
Se noi facciamo un’offerta, dobbiamo infatti conoscere la domanda: per fare questo dobbiamo recuperare la lezione popolare di un’autentica laicità, evitando un pericoloso errore interpretativo che è quello d’identificare in Italia i cattolici con gli eredi della Democrazia cristiana, ovvero con i membri di associazioni e di movimenti diversissime tra loro come l’Azione Cattolica, Comunione e liberazione, l’Opus Dei, il volontariato e il sindacalismo di matrice cristiana.
Anche per questo la CEI si è rivolta e si rivolge al “popolo cristiano” piuttosto che ai “militanti”, nonostante tutte le fragilità e gli accomodamenti quotidiani del cristiano comune: questa scelta pastorale è assolutamente netta nell’insegnamento degli ultimi tre pontefici: padre Spadaro, su Civiltà cattolica, ha sottolineato l’importanza di “tornare ad essere popolari”, riconnettersi con la società civile, con i “ceti popolari”, ricostruire la relazione naturale con il popolo.
Come eredi del popolarismo dobbiamo ribadire con forza che ci rivolgiamo a tutti gli italiani, indipendentemente dalla loro appartenenza di fede, perché siamo convinti della forza del nostro progetto.
Ciò non significa non avere un proprio retroterra culturale e sociale, che è dato da quella pluralità di “mondi vitali” che formano la costellazione del cattolicesimo sociale e che oggi significano “sussidiarietà in azione”.
Anzi, in un certo senso, questi mondi vitali pesano oggi più che nella società novecentesca perché costituiscono un gigantesco potenziale di reti, di “minoranze creative” in grado di dare senso, ruolo ed appartenenza ad un popolo che si è progressivamente atomizzato, rinchiuso nel particolarismo dalla crisi e dall’individualismo.
Si tratta sicuramente della sfida più difficile perché i fattori di disarticolazione e disgregazione della società nazionale sono potenti e fondamentalmente incarnati da quasi tutte le forze politiche, che non a caso, esprimono leadership autoreferenziali, mai veramente “popolari”.
Il terzo spunto: partire da una condivisa disamina storico-politica per fondare meglio le ragioni della nostra proposta.
Si è detto per molti anni, ed è ancora questa la concezione più diffusa nel nostro mondo, che compito dei cattolici è quello di dare testimonianza dei propri ideali in qualsiasi gruppo politico si trovino.
Sennonché, la testimonianza morale, fondamentale anche per l’azione politica, non equivale all’azione politica. L’azione politica, se vuole essere efficace, esige l’organizzazione, cioè di un partito, altrimenti politicamente si conta zero.
Il Manifesto ( CLICCA QUI ) ha dato coraggiosamente voce ai gruppi ed alle associazioni del cattolicesimo democratico e popolare che oggi rifiutano decisamente di continuare ad affaccendarsi nel prepolitico, preparando ascari per altri eserciti, e in vista di loro specifiche e spesso non condivisibili finalità nella sfera politica, come è accaduto in questi anni.
Contro l’idea di progettare una nuova formazione, innovativa nei programmi e nelle proposte quanto sinceramente legata alla lezione del popolarismo, si ripete l’obiezione che, per la realizzazione di tale progetto, non ci sono le condizioni. Come se le condizioni fossero entità metafisiche legate ai capi dell’eternità e non fossero fatti storici, economici e politici da combattere o da creare.
La realtà è che ripetere fino al fastidio che non ci sono le condizioni per la creazione di un partito di chiara ispirazione popolare equivale ad una specie di rassegnazione, ad una chiara resa ai fatti.
Partire da una condivisa visione del nuovo partito rinvia necessariamente ad un ulteriore sforzo interpretativo, a quello che potrebbe chiamarsi un’”operazione verità” nei confronti della crisi italiana e dei processi storici che l’hanno originata a partire dagli inizi degli anni Novanta.
Riteniamo che la lunga – e mai conclusa – transizione iniziata nel 1992-1993 con la fine traumatica dei partiti – se ripercorsa oggi alla luce dei suoi esiti – possa essere letta sinteticamente come una lunga variazione sul tema dell’antipolitica, che ha dato vita sia a forme più attenuate di critica, sia a forme di sfida aperta alle strutture portanti della sovranità democratica che, in coerenza con una forte corrente tradizionalmente operante nel nostro Paese, hanno trovano nell’antiparlamentarismo il proprio fulcro.
Le scorie prodotte dalle insorgenze populiste vissute dal nostro Paese sono pesanti e tutt’altro che neutralizzate: basti pensare alle gravi distorsioni indotte nel quadro costituzionale, nel sistema giudiziario, nelle scelte di politica internazionale ed europea.
Le strutture della sovranità democratica colpite, in primis i partiti democratici dell’età repubblicana, sono oggi oggetto di una nuova e più accurata indagine nonché di una vera e propria corrente “riabilitatrice”, entrambe necessarie ai fini della ricostruzione della verità storica ma insufficienti a promuovere un’azione politica di tipo nuovo e superiore rispetto al quadro attuale.
Fra le illusioni prodotte dalla “stagione dell’antipolitica” ve ne sono almeno due che si sono contese a lungo la scena in questi anni, apparentemente contrapposte, in realtà fra loro intrecciate. Con queste illusioni – e con le loro radici profonde – occorre oggi fare i conti.
La prima è quella di essere approdati ad una nuova – e più avanzata – forma-partito, variamente denominata: partito a vocazione maggioritaria, partito della nazione, partito della rete o della gente (in grado di spazzare via tutti gli altri), partito dell’uomo solo al comando, ecc. Il tutto condito da sociologismi di varia caratura e creatività.
La seconda è quella di aver dato vita ad un sistema compiutamente bipolare e, quindi, di essere riusciti a realizzare un passo decisivo sulla strada della modernizzazione del sistema politico italiano.
A rivelare la prima illusione come tale è sufficiente la semplice considerazione di quanto le nuove forme-partito sperimentate (e ancora in via di sperimentazione) si scoprano effimere e non siano state finora in grado di fronteggiare efficacemente l’ondata di marea dell’antipolitica.
Spiegare la seconda illusione – quella del sistema bipolare – richiede invece una verifica più approfondita. In primo luogo in merito alla utilizzabilità del tradizionale cleavage destra-sinistra per interpretare la realtà contemporanea, quando invece questo discrimine oggi sembra avere perso gran parte della sua pregnanza e capacità euristica di dare conto della “crisi”.
La contrapposizione destra-sinistra – che con il declino del grillismo in molti sperano di riportare in auge – è destinata ad avere fiato corto per due motivi: il primo è che il bipolarismo italiano è sempre stato fragile e non si è mai tradotto in un rinnovamento delle culture politiche, ma ha solo potuto appiattirle tutte e confonderle.
Il secondo motivo è che la contrapposizione destra-sinistra dice sempre meno sulle principali contraddizioni del mondo contemporaneo: la confusione sull’uomo e il suo destino che continuamente si ripropone nella società postmoderna e la contrapposizione popolo-élite che serpeggia come frutto avvelenato della vittoria ormai consumata del globalismo ultraliberista. E invece è proprio da queste contraddizioni – e dal loro portato di scetticismo, sfiducia, affievolimento del senso di responsabilità individuale e collettiva – che discendono i disagi più autentici delle famiglie, dei giovani, dei cittadini-elettori.
Una nuova soggettività politica non potrà non trarre origine proprio da qui, dall’esigenza di trovare un “nuovo baricentro”, prima culturale e poi politico, ad un sistema democratico drammaticamente privo oggi di una sua capacità di tenuta.
Il primato della lotta culturale al relativismo etico e allo scientismo, quali elementi disgregativi della coesione sociale insieme alla separazione dei più autentici motivi del liberalismo politico dalla hybris del neoliberismo economico e quindi dalle élite del capitalismo globale che ne rappresentano gli unici beneficiari, offrono oggi il terreno solido su cui costruire una soggettività politica “centrale”, innovatrice e non effimera. Non giustapposizione di identità, ma creazione di una netta identità politica, interamente basata sulla condivisione di valori non negoziabili.
Quelli che oggi sono minacciati sono infatti beni da sempre cari ai cattolici quanto ai liberali, ma sono – soprattutto – beni fra loro interdipendenti: l’integrità dell’immagine dell’uomo quale persona, cioè non semplice individuo ma persona in rapporto con la trascendenza e inserito nel suo tessuto naturale di relazioni, in primis la famiglia naturale, e – insieme – la sopravvivenza della dimensione politica e di libertà, indissolubilmente legate a quel razionalismo pienamente umano oggi messo in discussione sia da aggressive ideologie postdemocratiche, sia da distopie antropologiche “transumaniste”.
È significativo che da questo razionalismo stiano invece prendendo congedo le principali culture politiche correnti: da quelle progressiste che celebrano quotidianamente la sintesi velleitaria fra globalismo “umanitario” ed edonismo post-moderno e sostanzialmente ateistico, a quelle che vi si contrappongono riecheggiando, con scarse serietà e profondità storica, suggestioni conservatrici.
La rifondazione di un umanesimo plenario in cui radicare la dimensione politica e di libertà assume invece, in questo contesto, anche una valenza filosofica poiché esso non può essere il mero razionalismo della materia – nelle due varianti economico-finanziaria e tecnica – ma deve essere piuttosto un razionalismo che assuma su di sé – con coraggio e senza complessi – la materia della vita umana e quindi il passaggio dall’orizzonte dell’individuo a quello della persona.
Solo partendo da queste premesse può essere definito e affrontato nella sua reale dimensione il principale tema politico oggi sul tappeto, che è quello dell’”altra Europa possibile” (Maurizio Cotta) e del ruolo di questo continente nel contesto dell’Occidente e nel futuro del mondo.
Crisi irreversibile della costruzione istituzionale secondo il progetto originario dei padri democratico-cristiani ed offuscamento del senso della libertà cristiana sono infatti le due principali facce di un poliedro, di cui confusione culturale sulle identità nazionali, crisi migratoria e stagnazione economica sono le manifestazioni derivate.
Tornare a fare politica da cristiani deve significare riportare la vita entro un orizzonte ragionevole, reagendo a sentimenti di confusione e d’impotenza, d’insensatezza e talvolta di disperazione che più facilmente allignano in una società in via di smarrimento della dimensione verticale della trascendenza.
Avviare un’iniziativa politica sulla base dell’ispirazione cristiana significa amare la libertà, ritenere che sia sì un diritto, ma ancor più un dovere partecipare alle dinamiche della cosa pubblica sulla base della propria autenticità interiore, come concorso ad un’ordinata e pacifica vita collettiva.
Significa ritenere, altresì, che vi sia un nesso inscindibile tra la libertà di cui si gode individualmente e la giustizia sociale, cosicché ogni qual volta quest’ultima è ferita, anche la libertà di ciascuno soffre una grave delegittimazione.
Filippo Cinoglossi