“E’ peggio di un crimine; è un errore”, fu il commento, si dice, di Talleyrand (o forse di Joseph Fouché, Duca di Otranto) quando venne a sapere che Napoleone aveva fatto rapire, per assassinarlo, il Duca di Enghien.  Peggio di un crimine perché, in politica, il crimine può pagare. E l’effetto di un gesto risolutivo è spesso indipendente dalla sua qualità morale, dal giudizio che si può dare su di esso. Un errore, invece, si paga sempre. Immediatamente; o più spesso a medio o lungo termine. Definire come un crimine un gesto dell’avversario  in una partita di potere è solo propaganda. Valutarlo come un “errore”, mettendosi retoricamente nella posizione dell’avversario, ha inevitabilmente una connotazione minacciosa.

Che Xi Jinping sapesse del  commento di Talleyrand al crimine commesso dal Primo Console è piuttosto improbabile. Ma è verosimile che l’uso che egli fa della parola “errore”,  riferendosi alla decisione di Biden di invitare anche Taiwan al cosiddetto “Summit delle democrazie” in programma per il 9 e 10 dicembre, abbia proprio la stessa sfumatura di significato che le attribuiva Talleyrand.  Il leader cinese aveva peraltro già usato un concetto simile circa un mese fa, quando aveva parlato di “segnale sbagliato” a proposito dell’affermazione di Biden secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero difeso Taiwan se questa fosse stata in pericolo.

Una escalation preoccupante

 A questa implicita minaccia Pechino aveva fatto seguire, pochi giorni dopo alcune misure di ritorsione contro le compagnie che vendono armi a Taiwan, chiaramente a sottolineare la sua netta opposizione ad ogni mutamento nei rapporti di forza sinora esistenti nello stretto più pericoloso del mondo. Minaccia che si applica ancor più all’ipotesi di stanziamento sull’isola di forze americane da combattimento, che verrebbe a determinare una situazione inaccettabile analoga a quella creata nel 1962 da Krusciov con l’installazione dei missili a Cuba.

E’ facile insomma vedere come sia in corso tra Cina e Stati Uniti una preoccupante escalation, al momento fortunatamente ancora verbale, ma in realtà pericolosissima. Eppure, l’iniziativa bilaterale sino americana a proposito dell’ambiente, annunciata a conclusione della conferenza di Glasgow, e ancora più la lunga conversazione avuta tra i due presidenti nella notte del 15-16 novembre, avevano chiaramente dato la sensazione che entrambi i responsabili di quelle che sono ormai le massime potenze militari del pianeta fossero preoccupati del sentiero qui si erano messi i loro rapporti.

La difficolta a diminuire la tensione è in gran parte dovuta alla diversità strutturale tra i due contendenti. Sei infatti Xi Jinping ha il controllo completo della linea cinese, lo stesso non vale per il Presidente della massima potenza occidentale. La linea espressa a Washington su questa, come su ogni questione internazionale, deve tenere in conto non solo delle forze politiche non allineate con  gli orientamenti dell’Amministrazione Biden, ma anche delle posizioni di gruppi politici di opposizione, delle pressioni dei grandi interessi economici, e ancor di quelle più paesi alleati la cui stabilità politica dipende da un forte impegno americano sulla scena internazionale.

Il partito della guerra

Non di rado questi potenti soggetti che concorrono a definire la posizione americana vedono un possibile scontro tra Washington e Pechino con occhi meno allarmati di quanto non sembra essere il caso alla Casa Bianca.  Tendono sempre a formare una sorta di “partito della guerra”. E non è escluso che essi possano risultare più forti delle opinioni dello stesso Presidente nel determinare la linea politica e diplomatica degli Stati Uniti.

Inevitabilmente, in una società pluralista come quella americana, l’amministrazione deve tenere conto di queste componenti del sistema di potere che vedono nella Cina una minaccia che non si può tollerare, una vera e propria delenda Chartago. E che cerca di far apparire i ripetuti avvertimenti di Henry Kissinger a non “giocare con il fuoco” come i brontolii di un vecchio uomo di Stato che vede a rischio il capolavoro diplomatico da lui realizzato,  in una fase storica che però, negli Stati Uniti, questi gruppi politico-burocratici vorrebbero considerare ormai superata.

Resta però il fatto che, sin dall’inizio del proprio mandato, Biden ha più volte riaffermato una linea di doppio impegno. Da un lato, egli “si oppone con forza ai tentativi unilaterali di cambiare lo status quo o comunque di mettere a rischio la pace e la stabilita nello Stretto di Taiwan. Ma dall’altro, egli aderisce alla “one China policy”, che ufficialmente riconosce solo la Repubblica Popolare Cinese e il suo governo, a Pechino.

Destreggiandosi tra convinzioni e spinte contrastanti,  Biden non può insomma seguire che un itinerario molto contorto, con posizioni di crescente, rischiosa ambiguità. Ambiguità che nel caso di Taiwan dura da quarant’anni, ed è stata addirittura formalmente teorizzata ed esplicitata come inevitabile già all’indomani nel gennaio 1979, quando gli Stati Uniti riconobbero Pechino come capitale della Cina, e la Repubblica popolare come unica Cina. Dopodiché la linea ufficiale dell’America è stata quella di riconoscere che Pechino rivendica la sovranità su Taiwan, considerata come una sua provincia  attualmente in mano a forze ribelli, ma non si pronuncia sulla legittimità di tale rivendicazione.

Oggi le ragioni di sottolineare questa ambiguità nei rapporti con Taiwan sembrano più impellenti, ma al tempo stesso la crescita in potenza della Cina  la fa apparire sempre più pericolosa e difficile da preservare. Quello che è certo è che dai primi di ottobre, per Biden, il sentiero dell’ambiguità tra Taiwan e la Cina  si è progressivamente fatto non solo più stretto che mai,  ma anche caratterizzato da un  tracciato piuttosto sinusoidale. Da un lato, va infatti riconosciuto al presidente cattolico il merito di fare tutto quello che può per correggere la situazione assai peggiore venuta a determinarsi durante la presidenza Trump. Dall’altro, egli non sembra disposto a rinnegare l’impegno preso davanti agli elettori di riportare gli Stati Uniti in una posizione di leadership globale, anche se questo dovesse significare  una sfida aperta alle “forze autoritarie tra cui spiccano la Cina e la Russia”.

L’ambiguità come metodo

II summit che si terrà in forma virtuale il 9 e10 dicembre, e al quale sono invitati i leader di poco più della metà dei paesi del mondo, ma non la Cina e la Russia, viene presentato da Biden come il primo passo, o almeno un’ passo preliminare a questo recupero di status dell’America come potenza guida dei paesi democratici. Ciò ha fatto dell’invito a Taiwan una pressoché inevitabile necessità di bandiera,  ma al tempo stesso ne ha provocato la denuncia come “errore” da parte cinese. Significativo però  è il basso livello al quale la risposta di Pechino è stata tenuta, quello di una portavoce dello “Ufficio per la questione di Taiwan”. E se ciò sdrammatizza molto il contrasto, sembra anche indicare la via per mantenere l’intera questione ad un giusto grado di ambiguità,  che consenta di “descalare” il livello del conflitto.

Virtualmente “presenti” al Summit, sarebbero infatti non la Presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, bensì due personalità di livello nettamente meno impegnativo. La “bottomline” di Pechino – ovvero, come avrebbe più brutalmente detto Donald Trump, il suo “ultimo prezzo” –  è insomma che la Signora Tsai, leader di un partito che flirta apertamente con l’idea dell’indipendenza dell’isola, non venga invitata, o che almeno non le sia  consentito di partecipare. In questo modo, le autorità di Pechino potrebbero dire alla loro patriottica opinione pubblica che, di fronte alle proteste cinesi gli Stati Uniti e il Presidente Biden sono stati costretti ad abbandonare i loro intenti provocatori e a fare macchina indietro.

Sugli schermi della riunione virtuale apparirebbe infatti la formula già applicata in altre occasioni, sia diplomatiche che sportive, e la delegazione di Taiwan si chiamerebbe ufficialmente “Chinese Taipei”. Sarebbe così seguito il suggerimento dall’influente quotidiano di Shanghai Global Affairs, considerato la voce della corrente nazionalista del PCC, e verrebbe ribadita l’esistenza di una sola Cina, principio cui non intendono rinunciare né Pechino, né il principale partito d’opposizione di Taiwan. Che poi non è altro che il Kuomintang, il partito nazionalista di Chang Kai Shek, che fu grande avversario di Mao, ma che è anche oggi riconosciuto come uno dei padri fondatori della patria della Cina contemporanea.
Giuseppe Sacco

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