La classica “tela di Penelope” rende bene l’ idea di un’Europa che, in questi giorni, ad un tempo, si fa e si disfa.
Riparte la Commissione nel segno di una continuità di indirizzo politico che non ha ceduto – come si temeva potesse accadere con le elezioni dello scorso giugno – al populismo sovranista, ma, nel contempo, alla crisi tedesca si sovrappone, pesante come il macigno di una pietra tombale, quella francese.
La caduta del governo Barnier ha tutti i caratteri di una crisi di sistema, non solo di governo. E’ lì a dimostrare come, infine, l’urgenza dei processi sociali, quando non si è in grado di governarli, genera pur sempre una spinta tale da tracimare oltre le paratie di qualunque ordinamento, per quanto concepito – com’ e’ il caso del semi-presidenzialismo francese – in funzione di una “governabilità’” quanto piu’ possibile efficace, in virtù della centralizzazione del potere, e stabile nel tempo.
Si potrebbe dire che giunge al capolinea la Quinta Repubblica che, nel 1958, nacque, nel pieno della crisi algerina, consegnando il potere al Generale De Gaulle ed assumendo una forma istituzionale necessariamente rigida, concepita in funzione di una gravissima emergenza nazionale, pervasa dal terrorismo dell’ OAS. Una forma che, se pur corrisponde allo storico e tradizionale “centralismo” dello Stato francese, si rivela del tutto inadatta a governare una fase storica come l’attuale.
Giorgia Meloni dovrebbe imparare la lezione ed anziché proporre il “premierato” – soluzione, in ogni caso, fuori tempo e fuori luogo in questo momento, perfino per chi ne condividesse l’impianto da punto di vista dottrinale e politologico – dovrebbe apprezzare quel modello istituzionale vituperato che oggi le consente di governare, assorbendo le inevitabili tensioni – a cominciare da quelle interne alla sua stessa maggioranza – assai meglio di quanto succeda altrove.
Anche il nostro sistema politico, però, si va, purtroppo, radicalizzando secondo una legge di frontale contrapposizione tra due schieramenti che si sospingono l’un l’altra verso le rispettive posizioni estreme, nella misura in cui vivono di una reciproca delegittimazione, che paradossalmente è l’unico tratto che le assimila. Ne deriva un circolo vizioso che riverbera su sé stesso e rischia di replicarsi senza posa, fino ad essere esausto. A maggior ragione, in un’Europa che rischia di sbriciolarsi, l’Italia, solo che la sua classe politica, dall’una e dall’altra parte, ne fosse capace – cosa di cui è lecito dubitare a destra ed a manca – potrebbe e dovrebbe sviluppare concordemente un’azione diretta non solo a riaffermare come l’ideale europeo non sia solo una nobile aspirazione, ma una necessità storica inaggirabile. Bensì, in primo luogo, ad indicare passi concreti che contrastino una rischiosa deriva discendente ed, anzi, rilancino un cammino comune che, peraltro, per essere possibile ed efficace deve rispettare, nell’ attuale contesto internazionale, finestre temporali che non restano aperte all’ infinito.
Insomma, bisogna evitare che i Paesi europei si gingillino in leziose contese interne, arrivando a chiudere la stalla quando i buoi siano fuggiti.
Insomma, è possibile che – se non altro in nome del ruolo fondamentale che l’Italia ha avuto nella stessa genesi del sogno europeo – destra e sinistra sappiano cogliere come, al di sopra degli interessi particolari che confliggono, debba essere riconosciuto, in questo momento, sia pure attraverso una tregua temporanea, un interesse generale da promuovere congiuntamente?
Può essere l’Italia in questo momento, a fronte del collasso franco-tedesco – anche in nome della maggiore stabilità del suo governo che giustamente Giorgia Meloni rivendica – a prendere in mano e tenere alta la bandiera dell’unità dell’Europa? E’ immaginabile che il Parlamento italiano, almeno a larga maggioranza, richiami all’ ordine chi deve concorrere ad un disegno storico che non possiamo mancare?
Domenico Galbiati