Il “centro”, araba fenice del discorso pubblico, “che vi sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”. Oggetto del desiderio tanto piu’ ambito, quanto più indefinito nella forma e almeno ambivalente nella sostanza. E se invece di discuterne in astratto, cioè in funzione di un dato di schieramento rapportato all’attuale sistema, cercassimo di definirlo in quanto progetto politico-programmatico e solo poi verificassimo, stabiliti i suoi tratti fondamentali, dove, a questo punto, finisca per collocarsi, cioe’ o nello spazio mediano tra destra e sinistra, sostanzialmente terzo incomodo eppure complice del “bipolarismo maggioritario” oppure, al di fuori di tale perimetro, in posizione alternativa?
I vari attori ed interpreti che aspirano o vengono altrimenti evocati ad un supposto ruolo “centrista” – per ora chiamiamolo pure convenzionalmente così – sono in grado di convenire attorno ad alcune architetture tematiche che reggano un’ intenzione politica effettivamente comune? Non è forse necessario prendere le mosse dall’idea condivisa di una democrazia che continui ad essere tale, non solo formalmente, ma nella sua reale e sostanziale consistenza, eppure sappia domare la complessità sociale e governarla, senza dover ricorrere ad auto-limitazioni o piuttosto subire la torsione di un qualche carattere autoritario che, di fatto, ne comprometta l’ attitudine a rendere effettiva la “sovranità popolare”?
I supposti “centristi” la pensano allo stesso modo e sono pronti ad una mobilitazione comune contro il “premierato” oppure taluni indulgono a lisciare la maggioranza per il verso del pelo, cercando spazi di interlocuzione, di mediazione o accomodamenti emendativi che spostino la partita sul terreno di casa di chi ha in mente, di fatto, di stravolgere la Costituzione?
Sono d’accordo su una strategia che, anzitutto attraverso una nuova legge elettorale di carattere proporzionale, restituisca agli italiani la facoltà di eleggere i propri rappresentanti in Parlamento, cominciando, sia pure faticosamente, a risalire la china dell’astensionismo?
Come pensano di costruire un’Europa che sia all’altezza della sua storia e sappia assumere l’autorevolezza che le compete nello scacchiere internazionale multipolare che oggi si va imponendo, nel solco della sua consolidata, ma non passiva ed acritica partecipazione al concerto dei paesi dell’Occidente democratico?
Sono in grado di assumere concordemente i “diritti sociali” come asse portante e priorità di un programma che dal lavoro alla casa, dalla scuola e dalla cultura alla salute, dalla cura dei soggetti fragili alla vivibilità del contesto urbano fino alla salubrità dell’ambiente privilegi le aspirazioni più immediate delle persone e le attese dei contesti sociali in cui maturano e sviluppano la loro identità, a cominciare dalla famiglia? Intendono o meno privilegiare politiche che, piuttosto che blandire una cultura individualista, siano orientate a ricostruire quella “coesione sociale”, che, nell’orizzonte di un nuovo sentimento popolare, concorra a ridare senso compiuto alla vita?
Sono in grado di condividere una lettura dei fenomeni migratori, quali eventi di rilievo epocale, destinati a protrarsi, con ogni probabilità, per i prossimi decenni dell’ intero XXI secolo, tali per cui e’ necessario, anziché sollecitare la diffidenza ostile della pubblica opinione, creare, nell’articolazione territoriale del Paese, politiche di inclusione e di progressiva assimilazione di coloro che, ancora in larga misura, sono bollati come “diversi”?
Infine, condividono la necessità, da qualunque cultura provengano, di affrontare quella “rifondazione antropologica”
della politica – come più volte è stata chiamata su queste pagine – che permetta di trarre le cosiddette “questioni eticamente sensibili”, il nascere ed il morire, fuori dal limbo di un’ attenzione di volta in volta frammentata e parziale, priva di un orizzonte che, se non altro sul piano del metodo, possa essere condiviso da tutti?
Per ora va bene fermarci a queste poche ed essenziali prospettive progettuali e programmatiche, per chiederci se e come possano rappresentare l’ “incipit” di un lavoro di tessitura paziente paziente diretto a ricucire le mille slabbrature di cui oggi soffriamo. Se anziché un presunto “centro” riuscissimo a creare un “baricentro” programmatico, riusciremmo forse a ridare una speranza di trasformazione virtuosa al nostro Paese e, con essa, una fiducia, oggi smarrita, nel domani che lo attende.
Domenico Galbiati