La salute psicologica si mostra come parte essenziale del più ampio diritto alla salute che, come tale, andrebbe tutelato nella sua globalità: da una più adeguata accessibilità alle cure psicologiche può derivare benessere per l’intero corpo sociale.

1. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”: il diritto alla salute a cui fa riferimento l’art. 32 Cost. non è riducibile alla mera dimensione materiale del corpo umano. Dalla definizione del diritto alla salute coniata dall’OMS nel 1946 – uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non meramente l’assenza di malattia o infermità -, appare altresì altrettanto evidente che essa non può restringersi all’ambito strettamente fisico, dovendo includere la dimensione psichica come già uno dei padri della medicina quale fu Galeno aveva intuito[1].

Un’indagine sull’impatto psicologico della pandemia nelle famiglie, promossa dall’Irccs Gaslini di Genova e guidata dal neurologo Lino Nobili, ha mostrato comel’isolamento ha causato l’insorgenza di problematiche comportamentali e sintomi di regressione nel 65% di bambini di età minore di 6 anni e nel 71% di quelli di età maggiore di 6 anni (fino a 18), di cui disturbi del sonno o mancanza d’aria sono alcuni dei sintomi, spesso legati al malessere dei genitori[2].

Il Covid 19 ha provocato un vero e proprio tsunami nel settore della salute mentale[3]. Durante la prima ondata dei contagi, uno o più servizi dedicati a pazienti con problemi mentali, neurologici o di abuso di sostanze stupefacenti sono rimasti paralizzati nel 93 % dei Paesi monitorati ( CLICCA QUI )vdall’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS). Quasi il 40% dei Paesi europei partecipanti allo studio ha riferito situazioni peggiori, tanto che tre servizi di igiene mentale su quattro sono stati sospesi.

2. Il Covid-19 non conosce confini geografici né barriere sociali, ma conosciamo bene l’insegnamento di Orwell, secondo cui nella fattoria tutti gli animali sono uguali, e però alcuni sono più uguali degli altri. Anche di fronte alla pandemia le condizioni di svantaggio economico, sociale o sanitario rappresentano un ulteriore fattore di rischio: gli ultimi dati Istat mettono in luce come lo svantaggio di chi già era in difficoltà si sia ulteriormente amplificato, e più accentuata sono aumentate anche le differenze di genere: tra le donne è più accentuata la diminuzione dell’occupazione in concomitanza al maggiore aumento del tasso di inattività.

Complessivamente, a fine 2019 le persone in povertà assoluta erano 4.6 milioni, pari al 7,7% della popolazione residente. Le misure di distanziamento sociale e di isolamento necessarie per contenere la diffusione del contagio hanno alimentato le risposte disadattive di chi era a disagio e hanno determinato l’emergenza o la riacutizzazione di molti disturbi mentali, e dei disturbi alimentari, in particolare aumento nella popolazione femminile in età scolare o universitaria. Pedagogisti, psicologi, dirigenti scolastici e istituzioni economiche sono concordi nel ritenere che studentesse e studenti provenienti da background meno fortunati siano stati svantaggiati nel seguire con profitto le lezioni impartite a distanza e che lo siano ancora di più coloro che soffrono di qualche forma di disabilità.

Vi è la preoccupazione diffusa di non poter realizzare progetti per il contrasto alla povertà educativa e la prevenzione della dispersione. L’emergenza sanitaria ha anche provocato nuove profonde ferite nella nostra comunità, proprio perché sono aumentate le situazioni disadattive relazionali. La tanto declamata ripartenza a grande velocità quando tutto sarà finito semplicemente non potrà esserci, ma ci sarà bisogno di un percorso lungo in cui avremo bisogno di poter accedere alle migliori risorse di tutti. In questo quadro, che fa emergere un bisogno di assistenza psicologica, quest’ultima è considerata una Cenerentola nel Servizio sanitario nazionale, assente in alcuni settori, fortemente depotenziata in altri.

3. Come far sì che il supporto psicologico entri nella vita delle persone? C’è un ritardo clamoroso della politica: in questo periodo di pandemia, all’interno del Cts non è presente neanche uno psicologo; è il riflesso di un sistema sanitario nazionale, nel quale la salute mentale riceve scarse risorse e rappresenta l’anello debole della nostra sanità; in Italia si investe solo il 3,5% delle risorse destinate alla spesa sanitaria in salute mentale, mentre in Francia, Germania e UK si stanziano dal 10 al 15% delle risorse.

A oltre trent’anni dal riconoscimento formale della professione di psicologo in Italia è stato soltanto con la L. 3/2018 che essa è stata inserita fra le discipline deputate alla tutela del fondamentale diritto alla Salute. Tale passaggio ha visto anche la qualifica formale di professione sanitaria, poiché gran parte delle attività proprie e riservate agli psicologi sono riconoscibili e ascrivibili fra quelle sanitarie. Ma questi cambiamenti, così come il valore e l’importanza degli psicologi, non sono ancora oggi sedimentati nel pensiero comune, né tantomeno in quello dei vertici dello Stato.

In parlamento è stata deposita la proposta di legge Bellucci e altri “Disposizioni per l’accesso ai servizi di psicoterapia e disciplina delle convenzioni con il Servizio sanitario nazionale” (2836)[4], che intende assicurare a tutti i cittadini il diritto alla salute psicologica, consentendo loro l’accesso alla psicoterapia mediante i servizi di prevenzione e di cura pubblici o privati convenzionati di psicoterapia.

Sul piano giuridico permangono, per quanto attestato dalla cronaca, profili problematici legati soprattutto ai trattamenti sanitari obbligatori e alla sanzione nei casi più gravi dell’incapacità giuridica: l’incerta valutazione in alcune occasioni dell’interesse generale che impone il trattamento sanitario finisce per far riemergere nella pratica lo stigma della pericolosità sociale, così come la dichiarazione di incapacità finisce per assumere connotati escludenti dalla convivenza sociale.

4. Rispetto a 40 anni fa assistiamo a un cambiamento del disagio psichico e dei disturbi mentali: emergono disturbi meno invalidanti ma più diffusi (a esempio disturbi dei comportamenti alimentari, depressione giovanile, ludopatia).

La risposta del SSN è stato il DPCM del 12/01/2017 con il quale sono stati ridefiniti i livelli essenziali di assistenza, ricomprendendo in essi l’assistenza sociosanitaria ai minori con disturbi in ambito neuropsichiatrico e del neurosviluppo, l’assistenza sociosanitaria alle persone con disturbi mentali e l’assistenza sociosanitaria semiresidenziale e residenziale alle persone con disturbi mentali. Il SSN si è impegnato ad assicurare “la presa in carico multidisciplinare e lo svolgimento di un programma terapeutico individualizzato differenziato per intensità, complessità e durata”. Ma nonostante gli impegni delle regioni permangono significative differenze territoriali nell’erogazione dei servizi, nonché una riduzione delle risorse impiegate. Situazione che mina tanto l’effettività del diritto alla salute, quanto l’uguaglianza sostanziale tra le persone.

Oggi il giudizio sull’evoluzione degli interventi per la salute mentale travalica la “dimensione” sanitaria, la valutazione sul sistema di interventi terapeutici assicurato dal SSN, sulla quantità e qualità delle cure ricevute, e tende a investire la più generale condizione sociale e giuridica delle persone con disagio mentale.

Bisogna interrogarsi sulla più ampia visione dei diritti civili e sociali da garantire in concreto, su quell’insieme di diritti e doveri che concorrono alla realizzazione della persona così come sancito dall’art. 2 Cost.: una prospettiva che rinviene le sue radici nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità ratificata dal nostro Paese con la legge n. 18/2009, che annovera all’art. 3 tra i suoi principi “il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone” e “la piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società”.

Ridare dignità alle persone con disturbi mentali significa non solo riconoscere diritti prima negati, ma soprattutto aiutare il soggetto a recuperare le capacità necessarie per esprimere la propria personalità sia sul piano identitario che su quello relazionale. L’orizzonte che si presenta è quello di spostare l’attenzione da una preoccupazione terapeutica e da un approccio sanitario (pur sempre irrinunciabili) a un coinvolgimento sociale. La dignità delle persone passa non solo attraverso la garanzia di prestazioni necessarie per soddisfare i loro bisogni essenziali e per promuovere le loro capacità, ma anche (e soprattutto) dall’integrazione sociale, per esempio attraverso l’esperienza lavorativa. La sfida da percorrere è quella di alimentare condizioni sociali capaci di impedire o almeno limitare la diffusione del disagio psichico.

Daniele Onori  –  Aldo Rocco Vitale

 


[1] Galeno, L’anima e il dolore, Bur, Milano, 2012.

[2] Vedi http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_4_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=salastampa&p=null&id=5573

[3] In questo senso sono stati pubblicati numerosi studi: ex plurimis cfr. AA.VV., Mental health before and during the COVID-19 pandemic: a longitudinal probability sample survey of the UK population, in The Lancet Psichiatry, 21 july 2020; AA.VV., Bidirectional associations between COVID-19 and psychiatric disorder: retrospective cohort studies of 62 354 COVID-19 cases in the USA, in The Lancet Psichiatry, 9 november 2020; AA.VV., Psychiatry during the Covid-19 pandemic: a survey on mental health departments in Italy, in BMC Psichiatry, 16 december 2020.

[4] Vedi https://www.camera.it/leg18/126?tab=2&leg=18&idDocumento=2836&sede=&tipo=

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