Riprendiamo le note pubblicate in tre parti dal Centro studi Rosario Livatino ( CLICCA QUI )a seguito della pubblicazione della nota annuale del Ministero della Salute sull’attuazione della legge 194 sull’aborto. Tutte a firma di Antonio Casciano.
Prima Parte
1. Anche quest’anno, con considerevole ritardo, il Ministro della Salute ha presentato al Parlamento l’annuale Relazione sull’attuazione della legge n. 194/ 1978 (d’ora innanzi, Relazione), riferita all’anno 2018 e svolta a partire dal complesso di dati forniti dalle regioni al Sistema di Sorveglianza Epidemiologica delle Interruzioni Volontarie di Gravidanza (IVG), operante presso l’ISS, dati poi elaborati dall’ISTAT. La lettura della Relazione suggerisce preliminarmente la domanda sulla effettiva utilità che la disciplina sta avendo in vista del conseguimento degli obiettivi che il legislatore aveva scelto di darsi all’atto della sua approvazione: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite” (Articolo 1).

La domanda si fa pressante se si riflette su una serie di indicatori sociali – relativi al diffondersi dell’aborto farmacologico, al profilo-tipo delle donne che accedono alla IVG, all’aumento del numero degli aborti clandestini, all’incidenza dell’obiezione di coscienza del personale medico e, infine, al ruolo svolto dai consultori familiari – nella trasparenza dei quali leggere l’adesione, traversale ed acritica, a un’autentica e sempre più diffusa mentalità contraccettiva, a una cultura cioè che mira a sancire su larga scala la definitiva rottura tra il momento unitivo e quello procreativo dell’atto sessuale, alimentando tendenze che, ispirate alla deresponsabilizzazione relazionale e alla strumentalizzazione della persona, alla banalizzazione della sessualità e alla reificazione/sfruttamento del corpo femminile, stanno conducendo verso un vero e proprio abortismo libertario di massa.

2. La Relazione si apre con la conferma dell’andamento decrescente del numero di aborti praticati in Italia; si legge infatti nelle prime pagine: «In totale nel 2018 sono state notificate 76.328 IVG, confermando il continuo andamento in diminuzione del fenomeno (-5,5% rispetto al 2017) a partire dal 1983. […] Tutti gli indicatori confermano il trend in diminuzione: il tasso di abortività(N. IVG rispetto a 1.000 donne di età 15-49 anni residenti in Italia), che è l’indicatore più accurato per una corretta tendenza al ricorso all’IVG, è risultato pari a 6,0 per 1.000 nel 2018, con una riduzione del 4,0% rispetto al 2017 e del 65,1% rispetto al 1982. Il dato italiano rimane tra i valori più bassi a livello internazionale» (Ivi, p. 2).

La lettura corretta dei dati relativi al tasso di abortività impone di considerarne i relativi indici alla luce di altri due parimenti significativi: 1) il persistente calo della natalità in Italia. In particolare, dal 2017 al 2018 i nati della popolazione presente sul territorio nazionale sono diminuiti di 16.698 unità e questo incide sul calcolo del rapporto di abortività (ovvero, sul numero di IVG rispetto a 1000 nati vivi)[1]; 2) la fascia d’età, tra i 25 e i 34 anni, a cui ricollegare non solo i tassi di abortività più elevati, ma anche gli indici di fertilità femminile più elevati[2]. Se quest’ultimo dato viene poi letto in uno con quello relativo alla stato civile delle donne che fanno ricorso alla IVG (nel 2018 la distribuzione percentuale per stato civile mostra un 36,8% di coniugate e un 57,2% di nubili), al tipo di scolarizzazione delle stesse (nell’ultimo «trentennio il tasso di abortività è diminuito tra le donne con il diploma di scuola superiore o laurea [da 14 per 1000 nel 1981 a 6 per 1000 nel 2011], mentre è rimasto costante tra quelle con diploma di scuola media inferiore dal 1991 dopo un’iniziale diminuzione. Il tasso delle donne con titolo di studio basso non si è modificato nel tempo anzi, nell’ultimo anno per cui è disponibile il dato, mostra valori in aumento», ivi, p. 29), e, infine, al loro livello di occupazione (il 45,6% delle donne che hanno abortito nel 2018 risulta occupata, il 20,9% casalinga e il 10,2% studentessa), si hanno elementi sufficienti per delineare un profilo chiaro delle donne che maggiormente ricorrono alla IVG.

3. Salta agli occhi, in particolare, l’aumento, già registrato peraltro nella precedente Relazione, del numero didonne occupate che ricorrono all’IVG, quando invece nei decenni precedenti le motivazioni di ordine economico-sociale finivano per incidere pesantemente sulla scelta dell’opzione abortiva. Sempre più spesso, dunque, donne mature, vicine alla fine dell’età fertile, professionalmente affermate, magari sposate, ricorrono all’IVG, a dimostrazione della diffusione di quella mentalità contraccettiva a cui si accennava in precedenza, che privilegia di fatto la ricerca dell’affermazione personale sulla logica dell’amore come dono e servizio alla vita, in linea con i parametri dell’efficientismo performativo imposti dalla società odierna.

Seconda Parte : Gestanti straniere, “farmaci” abortivi, clandestinità

1. Rispetto a quanto considerato nel precedente appunto, vi è un aspetto che merita una particolare considerazione: riguarda i tassi di abortività tra le donne straniere. Così la Relazione: «Se nel 2018 rappresentano il 30,3% di tutte le IVG, valore identico a quello del 2017 ma inferiore al 33,0% del 2014, il tasso di abortività delle donne straniere continua a diminuire con un andamento costante (14,1 per 1000 nel 2017 rispetto a 15,5 nel 2016, 15,7 nel 2015 e 17,2 nel 2014). Le cittadine straniere permangono, comunque, una popolazione a maggior rischio di abortire rispetto alle italiane: per tutte le classi di età le straniere hanno tassi di abortività più elevati delle italiane di 2-3 volte» (ivi, p. 4).

Questo dato rivela con evidenza la speciale condizione di vulnerabilità umana e di marginalizzazione sociale in cui versano la maggior parte delle donne non italiane, per le quali l’esperienza di una gravidanza continua a rappresentare un vulnus per uscire dal quale pare non esistere altra via al di fuori di quella che conduce alla IVG. Eppure, la civiltà di uno Stato non può non passare per l’adozione di un welfare finalizzato a offrire un minimo di tutele necessarie a garantire non solo condizioni di vita degna a chi vive sul territorio di quello stesso Stato, ma pure l’esercizio libero della genitorialità, per quanti decidessero di optare per la nascita, piuttosto che per la morte di un figlio.

2. Tornando al quadro generale, la Relazione pare tacere o solo timidamente accennare ad alcuni dati – parte dei quali già evidenziati in un altro articolo pubblicato su questo sito[1] – essenziali per comprendere criticamente il complesso di cause alla base del fenomeno di riduzione del ricorso all’IVG.

A incidere significativamente sulla riduzione, in termini assoluti, del ricorso alla IVG, è l’espansione costante dell’uso di farmaci abortivi: «Come già presentato negli ultimi 3 anni, il recente andamento dell’IVG potrebbe essere almeno in parte influenzato dalle determine AIFA del 21 aprile 2015 (G.U. n.105 dell’8 maggio 2015) e del 1 febbraio 2016 (G.U. n.52 del 3 marzo 2016) che hanno eliminato per le maggiorenni, l’obbligo di prescrizione medica dell’Ulipristal acetato (ellaOne), contraccettivo d’emergenza meglio noto come “pillola dei 5 giorni dopo”, e del Levonorgestrel (Norlevo), contraccettivo d’emergenza meglio noto come “pillola del giorno dopo”. I dati della distribuzione dell’Ulipristal acetato (EllaOne), forniti dal sistema di Tracciabilità del farmaco del Ministero della Salute, che rappresentano una proxy del consumo, nel 2018 continuano a mostrare un andamento crescente. Come mostrato nel grafico, i dati registrati negli ultimi 4 anni risultano: 145.101 confezioni nel 2015, 189.589 nel 2016, 224.802 nel 2017 e 260.139 nel 2018» (ivi, p. 15). La terminologia utilizzata nella relazione, a proposito dell’Ulipristal acetato (EllaOne) e del Levonorgestrel (Norlevo) appare inesatta. Si parla, infatti, di contraccettivi d’emergenza, laddove è corretto parlare di intercettivi, cioè di farmaci che agiscono impedendo l’impianto dello zigote già formato nella cavità uterina: dunque, andrebbero propriamente definiti abortivi, se vi è stata la fecondazione dell’ovulo. A parte l’aspetto terminologico, il dato che più sorprende è che si continua a far passare sotto silenzio il fatto che il numero assoluto degli aborti non sia affatto calato, se tra le pratiche volte a provocare un’IVG si considerano pure quelle attuate coi farmaci appunto intercettivi, da ritenersi abortivi a tutti gli effetti. Senza dire che il profilo di sicurezza di tali farmaci abortivi è inferiore rispetto al metodo chirurgico, con una mortalità maggiore, a parità di epoca gestazionale, senza dire che eventi avversi, associati all’impiego dell’aborto medico, esordiscono spesso a distanza di tempo dalla procedura, insorgendo subdolamente e progredendo non di rado verso esiti difficili da trattare.

3. Allo stesso modo la Relazione affronta solo superficialmente il dato relativo agli aborti clandestini, la cui piaga l’avvento di una normazione disciplinate il ricorso all’IVG avrebbe dovuto estirpare definitivamente; e che invece permane con indici sostanzialmente invariati negli ultimi anni. Infatti, l’ISS ha stimato che il numero di aborti clandestini per le donne italiane sarebbe compreso tra le 10 e le 13.000 unità, numero decisamente inferiore rispetto a quello fatto registrare negli anni precedenti, ma ancora significativamente alto se si considera che il numero complessivo di IVG effettuate nel 2018 è, come detto, pari a 76.000 unità circa e che dunque la clandestinità incide ancora per quasi il 17% sul numero di aborti ufficialmente registrati in Italia.

Se bastasse davvero una buona legge per bandire il fenomeno della clandestinità, avremmo dovuto trovarci al cospetto di una realtà differente, così come diversi avrebbero dovuto essere i dati relativi tanto agli aborti praticati oltre la 12º settimana di gestazione, il cui indice è invece aumentato[2], al pari di quelli praticati optando per la procedura d’urgenza, il cui numero è parimenti cresciuto[3]. Peraltro, negli aborti oltre le 12 settimane, si è normalmente in presenza di gravidanze, inizialmente desiderate, che si decide di interrompere in seguito a esiti di diagnosi prenatale o per patologie materne. Mentre il primo aspetto tende a ridursi nel tempo grazie alla sempre maggiore propensione a evitare gravidanze indesiderate, il secondo tende a aumentare in seguito al maggior ricorso alla diagnosi prenatale anche in seguito all’aumento dell’età materna (ivi, p. 43).

Terza parte: Consultori, obiettori, contraccezione “abortiva

1. Un ulteriore dato che la Relazione sull’attuazione della legge 194/1978 sembra non considerare a sufficienza, nel valutare l’incidenza dei fattori che hanno occasionato la riduzione delle IVG, è quello relativo alla riduzione numerica delle donne in età fertile (da 13.961.645 del 2010 scese ai 12.945.219 del 2016), in ragione dell’invecchiamento progressivo della popolazione generale, oltre che della crescente sterilità delle coppie (l’infertilità riguarderebbe, ad oggi, circa il 15% delle coppie italiane): riducendosi sostanzialmente il numero delle gravidanze, è meno frequente il ricorso alla IVG. Sia l’uno che l’altro fattore incidono sensibilmente sulla capacità di addivenire ad una gravidanza, dunque anche sul numero di aborti, senza che alcun “merito” possa ascriversi alla Legge 194.

La Relazione tace altresì sul ruolo attivo svolto dai consultori familiari nel ridurre le intenzioni di aborto, e così favorire nascite che diversamente non si avrebbero. Ci si limita, sotto questo aspetto, a segnalare che dai «dati raccolti, come negli anni passati emerge un numero di colloqui IVG superiore al numero di certificati rilasciati (44.222 colloqui vs 31.234 certificati rilasciati), ciò potrebbe indicare l’effettiva azione per aiutare la donna a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione della gravidanza» (ivi, p. 58). Va aggiunto che il numero degli obiettori di coscienza nei consultori è molto inferiore rispetto a quello registrato nelle strutture ospedaliere e tende a diminuire ulteriormente (29.7% vs 70.5% nel 2015 e 23.1% vs 70.9% nel 2016, secondo la precedente Relazione).

2.Nella Relazione viene infine sfatato il mito della pretesa carenza cronica dei ginecologi non-obiettori operanti nella sanità pubblica, leitmotiv cui sono soliti ricorrere i sostenitori di una liberalizzazione selvaggia dell’IVG. I parametri per misurare l’incidenza dell’obiezione di coscienza esercitata dal personale sanitario, ai sensi dell’art. 9, sono tre e le relative evidenze concordano nel provare che ad oggi, in Italia, non esiste un problema di accesso all’IVG determinato dall’esercizio dell’obiezione. I parametri adottati tengono conto di:

a) Offerta del servizio in termini di numero assoluto di strutture disponibili.Dall’analisi emerge che il numero totale delle strutture con reparto di ostetricia e/o ginecologia a livello nazionale, nel 2018, risulta pari a 558 (erano 591 nel 2017), mentre il numero di quelle che effettuano le IVG nel 2018 risulta pari a 362, cioè il 64,9% del totale (era il 64,5% nel 2017 e il 60,4% nel 2016). Si è verificato, quindi, un lieve aumento percentuale di strutture disponibili (cfr. ivi, p. 53);

b) Offerta del servizio in termini relativi rispetto alla popolazione fertile e ai punti nascita. Dalla relazione si apprende che «a livello nazionale, ogni 100.000 donne in età fertile (15-49 anni), si contano 3,0 punti nascita, contro 2,9 punti IVG. Considerando quindi sia il numero assoluto dei punti IVG che quello normalizzato alla popolazione di donne in età fertile, la numerosità dei punti IVG appare più che adeguata, rispetto al numero delle IVG effettuate» (ivi, p. 55);

c) Offerta del servizio IVG, tenuto conto del diritto di obiezione di coscienza degli operatori, in relazione al numero medio settimanale di IVG effettuate da ogni ginecologo non obiettore. Dalla relazione emerge che, «considerando 44 settimane lavorative in un anno (valore utilizzato come standard nei progetti di ricerca europei), il numero di IVG per ogni ginecologo non obiettore, settimanalmente, va dalle 0,3 della Valle d’Aosta alle 3,8 del Molise, con una media nazionale di 1,2 IVG a settimana, dato stabile rispetto all’anno precedente. Il rapporto tra non obiettori e IVG effettuate, quindi, appare abbastanza stabile a livello nazionale; eventuali problemi nell’accesso al percorso IVG potrebbero essere riconducibili ad una inadeguata organizzazione territoriale (ivi, p. 56 – 57. Nostri i corsivi).

3. Leggendo fino in fondo la nota ministeriale, si ha come l’impressione che a oggi invalga, su larga scala, una cultura che tende a normalizzare la concezione dell’aborto come un mezzo di controllo delle nascite, in spregio al principio enunciato dalla 194. Lo si evince da fattori molteplici, quali la diffusione, specie tra le giovani generazioni, di una “mentalità contraccettiva” che si estende in mentalità abortiva; la sempre maggiore determinazione con cui gli organismi sovranazionali, ONU in primis, promuovono a livello planetario programmi di sviluppo delle popolazioni più povere per mezzo della diffusione capillare di strumenti e strutture finalizzati a favorire l’aborto; la sempre maggiore promozione dell’uso strumentale della sessualità; l’ossessione con cui si promuove la salute riproduttiva della donna basandola unicamente sulla libertà e sulla facilità di accesso alle soluzioni abortive; una generale cultura della banalizzazione della vita e della dignità personale dell’essere umano. E’ un’autentica emergenza culturale, antropologica, i cui effetti sembrano sfuggire a chi dovrebbe recepire e discutere questi dati, in primis il Parlamento.

 

 


Note Prima Parte

[1] «Le variazioni dei rapporti di abortività risentono sia delle variazioni delle IVG che di quelle dei nati, entrambe condizionate dalla presenza in Italia delle cittadine straniere, che tendono ad avere tassi di fecondità più elevati. Nell’interpretazione dei dati bisogna tenerne conto, soprattutto quando si effettuano confronti con gli anni precedenti in cui la loro presenza era minore», ivi, p. 22.

[2] Cfr. i dati del Ministero della Salute su “Età e fertilità” al seguente indirizzo web: http://www.salute.gov.it/portale/fertility/dettaglioContenutiFertility.jsp?lingua=italiano&id=4556&area=fertilita&menu=stilivita.

Note seconda parte

[1] Disponibile all’indirizzo: https://www.centrostudilivatino.it/pubblicata-in-ritardo-la-relazione-sullattuazione-della-legge-194/.

[2] I dati relativi agli aborti praticati oltre la 12º settimana di gestazione per il 2018 sono i seguenti: «5,6% nel 2018 e 2017, 5,3% nel 2016, 5,0% nel 2015, 4,7 nel 2014 rispetto a 4,2% nel 2013 e 3.8% nel 2012», ivi, p. 42.

[3] «Nel 2018 il ricorso al 3° comma dell’art. 5 della legge 194/78 è avvenuto nel 21,3% dei casi (Tab. 18) rispetto al 19,2% del 2017, al 16,7% del 2015, al 13,4% del 2013 e all’11,6% del 2011», ivi, p. 41.

Immagine utilizzata: Pixabay

 

 

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