C’era, una volta, una classe dirigente di nome e di fatto, della quale possiamo farci vanto e che si chiamava Francesco Saverio Nitti, Francesco De Sanctis, Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini e poi don Sturzo, Aldo Moro, Giuseppe Di Vittorio, et cetera.

C’era, una volta la meritocrazia, ma parliamo di un secolo fa. C’erano menti eccellenti nell’imprenditoria come E. Mattei, C. Olivetti, Agnelli, E. Ferrari, Mondadori che non guardavano soltanto al proprio lucro, ma al bene generale.

E c’erano le “carriere statali”, iprimis quella direttiva dei Ministeri a cui si accedeva per concorso pubblico, superando esami scritti e orali (non che il vaglio della “buona condotta”, avallata dagli organi della pubblica sicurezza). Inoltre, la legge prevedeva anche lo sbarramento per il passaggio alla carriera dirigenziale, distinta in tre qualifiche, gerarchicamente preordinate: primo dirigente, dirigente superiore e dirigente generale.

L’esecutivo si assumeva, nella c. d. I Repubblica, la piena responsabilità di deliberare, in sede di Consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente, la nomina a dirigente generale che si qualificava come provvedimento di alta amministrazione, successivamente controfirmato dal Presidente della Repubblica e pubblicato su G. U., sempre che vi fosse disponibilità nel ruolo organico di quel dicastero.

Pertanto, si esercitava un potere politico discrezionale alquanto ampio – non ad libitum come quello contemporaneo – nella valutazione dei titoli di servizio, professionali e culturali posseduti, ma sempre circoscritto dai principi costituzionali di riferimento in virtù della “riserva di legge” destinata a tutte le carriere dirigenziali, disciplinate da un regime di diritto pubblico che imponeva regole chiare e procedure formali, ben consolidate nel tempo e che si traducevano in buone prassi, sostanzialmente condivise sia dalle organizzazioni sindacali, sia dai partiti politici d’opposizione.

Questa impalcatura di stampo cavouriano è stata smantellata improvvidamente, a colpi di decreti legislativi, dalle riforme Bassanini-Brunetta, idealmente ispirate a scopiazzare in parte il sistema anglosassone – quanto al principio, mai attuato compiutamente, dello “spoil system” – oppure da quello d’oltralpe che è caratterizzato da minor formalismo e deregolamentazione nell’organizzazione amministrativa. Purtroppo, il principio-base della separazione tra il potere di direzione e di indirizzo, attribuito all’autorità governativa, e la gestione amm.va, spettante alla dirigenza di I e II Fascia (classificazione che farebbe pensare piuttosto ad una carriera militare!), si è manifestato nel corso di quest’ultimo ventennio con risultati tutt’altro che edificanti, che sono sotto gli occhi di tutti, dimostrando che trattasi di una sorta di chimera, bella e impossibile.

Che dire, ancora, delle nomine nelle autorità “indipendenti”, nelle agenzie nazionali e regionali, in commissioni ministeriali e interministeriali, comitati scientifici, negli enti vigilati o partecipati dai ministeri, da regioni, comuni, fondazioni e consorzi di bonifica?

Mancando una legge-quadro che definisca la figura professionale di “esperto”, sia di tipo amministrativo, sia tecnico-scientifico, sia della comunicazione o di rapporti istituzionali, si naviga a vista quanto a criteri e modalità di selezione, trattamenti economici e cumulo dei redditi, responsabilità di vario ordine senza la necessaria trasparenza. Dobbiamo perciò continuare ad assistere a giochi di potere e distribuzione delle cariche secondo il Manuale Cencelli, dando priorità a magistrati che vengono sottratti ai propri compiti d’istituto, talvolta per ragioni di comodo e di bassa opportunità politico-burocratica; spesso di ex deputati o senatori, oppure aspiranti parlamentari “trombati” nelle ultime elezioni, piuttosto che dirigenti pubblici a riposo che, meritatamente, si sono conquistati i titoli sul campo e che potrebbero dare – a costo zero – un cospicuo contributo di esperienze e competenze per il progresso della nazione, anche nell’epoca della digitalizzazione, dell’innovazione tecnologica e dell’intelligenza artificiale.

Facendo appello alla parresia, più volte invocata – a giusta ragione – da Papa Francesco emerge il diritto-dovere di affermare la verità: una classe dirigente all’altezza della gloriosa storia dell’Italia non c’è.

Occorre riflettere su questa “emergenza nazionale” che è politica, etica e culturale (di libri c’è una fiera in ogni angolo del paese e mostre, musei, biblioteche, librerie che ne vendono, ma chi e quanti li leggono!?); pensare ad un progetto-Paese che dia spazio ai giovani, chiedendosi come mai nelle università si affermano con minori difficoltà conseguendo la qualifica di professore a 40 anni e la titolarità del rettorato a 50, mentre negli altri campi – esclusa la P. A. ove una quota di “yes man” ce la fanno – ciò non avviene ed i “giovani cervelli” sono costretti a espatriare? E come mai pullulano fondazioni politiche – se ne calcolano a decine – ma nessuna di loro si occupa più di formazione dei quadri e futuri “legislatori” ? E la qualità dell’attività delle scuole della P. A. è  davvero cresciuta o sono rimaste una sorta di strutture un pò autoreferenziali, un pò limbo ove piazzare “mini-elefanti” come manager poco qualificati e professori per il “secondo lavoro” ?

A queste domande, ovviamente, non è facile dare una risposta adeguata e convincente, ma non possiamo sottrarci al dovere morale di sollevare dei dubbi utili alla crescita della qualità delle Istituzioni e della “polis”, sperando che qualche mente illuminata colga la provocazione e accetti la sfida di riformare le fondamenta per una classe dirigente più idonea a guidare una nazione che fa parte del consesso mondiale dei c.d. G7.

Michele Marino

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