L’America è finita? E con essa l’idea della sua democrazia? Domande estreme di questi giorni. Come quelle che pone Nino Labate (CLICCA QUI) sulla qualità dei processi democratici americani dell’oggi. Anche altri, tra cui Michele Rutigliano su queste pagine (CLICCA QUI), hanno più volte raccolto il comune, e smarrito sentimento tra quanti non riconoscono più l’idea di America tanto prepotentemente da essi stessi sostenuta. Sembra proprio che sia scomparso un “mito” europeo sul Nuovo Mondo.
Ma questo significa che l’America sia davvero finita? Anche se viene spontaneo comunque dire, riferendosi al “mito americano”, e a quello che esso ha rappresentato da almeno due secoli e più a questa parte, “c’era una volta l’America” … .
Già, quale America c’era? E ce n’è stata solo una? O ce ne sono sempre state almeno due. Quella del mito coltivato in Occidente e quella della Dottrina Monroe del 1823 della “America agli americani” tornata in modo tanto esplicito con Donald Trump alla Casa Bianca.
Quella Dottrina che potrebbe far pensare ad una tendenza isolazionistica, in realtà, aveva in sé un corollario che si concretizzò trent’anni dopo nelle acque della Baia di Uraga in Giappone dove il Commodoro Perry, con le sue quattro navi da battaglia, costrinse l’Arcipelago del Sol levate ad aprirsi al “mercato” americano.
E cosa fu di diverso da quel che è in corso ai giorni nostri anche nei confronti degli europei? Basta rifarsi alla recentissima dichiarazione del Segretario al commercio statunitense Howard Lutnick secondo il quale la guerra dei dazi scatenata dal suo Governo Trump si potrebbe chiudere se la Ue si aprisse al “mercato” americano.Le cannoniere americane non sono entrate né nella Rada di Rotterdam né nel Golfo Ligure, ma altri “bazooka” – i dazi al 30% – sono pronti ad esplodere i loro colpi.
Il “mito” e le precisazioni
E quindi dobbiamo chiederci che cosa – noi! – abbiamo voluto sempre vedere di quel “mito”. A maggior ragione quando si è costretti a considerare le “distorsioni” introdotte nel processo democratico interno agli stessi Stati Uniti e nelle relazioni con antichi e nuovi partner ed alleati. E ricordando Monroe e il Commodoro Perry, ma anche molto altro, non possiamo valutare tutto ciò come realtà e tendenze improvvisamente emerse, come se si trattassero di inattesi “accidenti”. Bensì da interpretare come conseguenza di fenomeni più antichi che non si sono voluti sempre analizzare adeguatamente.
Con una domanda in più che ci pone, in modo particolare, l’esplosione al massimo livello della crisi mediorientale. Chi guida realmente gli Stati Uniti? Ed interessante vedere porre questo quesito da parte di molti stessi analisti americani che si soffermano ad interrogarsi, e a interrogare, se siano gli Usa ad indirizzare Israele, o non sia vero il contrario. O addirittura se, guardando al contemporaneo scontro in Ucraina – a proposito del quale Trump sembra essersi adattato a seguire i “consigli” degli stessi che “consigliavano” Joe Biden – aggiungere ancora una domanda vieppiù significativa- e dalla risposta complicata: chi è realmente – o forse irrealisticamente ambisce – alla guida del mondo?
Ed è allora inevitabile valutare il senso del “mito” di cui parliamo da almeno due secoli. Così come del “sogno americano”, cioè un modello di libertà personale e di intrapresa alla cui base è stato a lungo la possibilità per tutti d’imbarcarsi su di un ascensore sociale da poter afferrare al volo, si fosse nati sul suolo americano o meno.
Viene da chiedersi pure se sia sempre esistente quell’idea pervasiva di un’assenza di limiti raccontata dalle grandi avventure cinematografiche vissute nelle immense praterie, foreste e montagne- Cui hanno fatto seguito “nuove frontiere”. Da quelle più recenti nello Spazio e, poi ancora, da fatti propri dell’autentica realtà mischiati con immaginazioni e ad attese sollecitate dal tumultuoso sviluppo scientifico, sociale e culturale cui noi, alla fine, finiamo per affibbiare, o accettare che venga affibbiato, il marchio “made in Usa”.
Un “made in Usa” avvolto pure da una patina che viene da quella stagione “dei Buoni sentimenti” degli anni ’20 e 30 dell’800. Stagione sopravvissuta nel corso di ben due secoli nonostante la fine di quei “sentimenti” che molto, a ben guardare, riguardava quasi esclusivamente le relazioni interne agli “states” e tra i loro abitanti. Eppure, sopravvissuta nonostante il padre di quei sentimenti fosse stato il già citato Presidente Monroe responsabile di aver dato vita ad una sorta di “colonialismo senza colonie” di cui avrebbero pagato le conseguenze i più latini paesi americani del sud del Nuovo continente.
Molto di quel “mito”, capace d’imporsi tenacemente, a dispetto di tante evidenze- ma questo ne conferma la forza- è dovuto a tantissimi non americani. Un esempio è spesso venuto dalla musica perché i più recenti fenomeni in quell’ambito, a partire dai Beatles, sono nati nella vecchia Inghilterra, ma poi rilanciati dalla industria discografica americana. E questo è valso anche per la letteratura, incluso quella scientifica. In particolare, per il cinema che è, sì!, hollywoodiano ma, sin dagli inizi, ha maturato un enorme debito verso chi americano non era.
E nonostante che sulle spiagge dove fioriva la moda dei bagni di mare, fiorissero anche i cartelli “Christians only”, Hollywood venne considerata dagli ebrei venuti dall’Europa come “an Empire of their own”. Per rendersene conto, basta scorrere l’elenco dei grandi registi e attori che hanno fatto ricchi e potenti gli “studios” californiani.
Il carattere americano, lo spirito della “frontiera” e la terra di riscatto
Una seconda precisazione riguarda quel che viene spesso definito il “carattere di una nazione”. Almeno per quanti pensano che stati e popoli possano essere considerati alla stregua di entità effettivamente unitarie, quasi si trattasse di un essere umano.
C’è da chiedersi quanto un eventuale “carattere americano”, ammesso che veramente esista, non sia frutto invece di un miscuglio di idee religiose, di fughe dalle madripatrie europee – agli inizi, molto più ampie del risaputo, quelle germaniche e olandesi, oltre, ovviamente, a quelle britanniche ed irlandesi. E poi seguite da quelle ebraiche ed italiane costrette, quest’ultime, a molto penare per non restare neglette e subordinate, al pari dei pochi nativi americani sopravvissuti alle “epiche” guerre indiane – letteralmente trasformate in veri e propri stermini di massa di cui il cinema Hollywood si ricorda allorquando prova ogni tanto ad andare oltre il mito dei “cow boy”. Infine, prima dell’autentica invasione dei “latinos”, ciò che ha rappresentato la “negritudine” afro – americana . E la spoliazione delle terre degli indiani d’America e la schiavitù hanno rappresentato i veri e propri volani iniziali della ricchezza d’America.
Eppure, tutto ciò si è mischiato con la porzione del “mito” che, forse, può essere considerata la più vera. Quella dello spirito della “Frontiera” creato a fine ‘800 da Frederick Jackson Turner secondo il quale il libero movimento verso il “Far west”, con lo spostamento delle frontiera sempre più in avanti verso l’Occidente, siano alla base dello sviluppo della democrazia, dell’individualismo e dello spirito dei pionieri propri della cultura americana. E alla ” nuova frontiera” fece riferimento J.F. Kennedy che non la intendeva solo per la grande avventura spaziale iniziata sotto la sua Presidenza, ma anche per i diritti sociali e il superamento delle vecchie culture che erano state alla base dei limiti posti alle donne, ai giovani, oltre che a fondamento della segregazione razziale.
E lo spirito della “nuova frontiera” divenne un tutt’uno con il “mito del “nuovo Mondo”, giunto a far comporre a Giacomo Puccini un suo grande successo, “La fanciulla del west”, e, prima ancora, al compositore boemo Antonin Dvořák con la sua nona sinfonia intitolata, appunto, “Dal Nuovo Mondo”. Tra le opere più eseguite ai loro giorni.
Sul piano della cultura più in generale, in particolare quella delle istituzioni e della politica, già in precedenza aveva richiamato una grande attenzione l’opera di Alexis de Tocqueville sulla giovane democrazia americana che, già allora, ai suoi occhi presentava degli aspetti da cui guardarsi, assieme alla speranza che molti suoi elementi s’imponessero anche nell’Europa che, dopo il diffondersi degli ideali rivoluzionari della libertà, della fraternità e dell’uguaglianza, era tornata sotto regimi monarchici e conservatori. Ma a de Tocqueville non piaceva quello che oggi chiamiamo più semplicemente “populismo” e cioè la possibile dittatura della maggioranza che egli definiva un “possibile dispotismo della democrazia”.
Per molti europei l’America è stata, prima, terra di riscatto per tanti che la Patria non era in grado di far sopravvivere. Poi, bastione contro il pericolo del comunismo sovietico. Dopo la sciagurata parentesi del fascismo che sottovalutò – e di molto – la resilienza e la forza del gigante d’oltre Oceano e si fece incantare dalle prime travolgenti imprese militari di Hitler.
Così nacque una sorta di spiccata nostra “dipendenza” che era militare e culturale, oltre che economica. E i nostri governanti, a partire da De Gasperi, assaggiarono il sapore agro dolce di una relazione che, comunque, permanendo la cosiddetta cortina di ferro e la divisione del mondo in due, costituiva una scelta obbligata, pesantemente venata di maccartismo, ma al tempo stesso sentita e condivisa. Al punto che persino Enrico Berlinguer fini per dirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato, cioè degli Stati Uniti d’America.
Il turbo – capitalismo
Giovanni Paolo II, certo molto dopo l’elaborazione di Berlinguer, c’aveva visto giusto quando dopo la caduta del Muro di Berlino avvertì delle conseguenze della sopravvivenza di uno solo dei grandi contendenti del dopo Seconda guerra mondiale – cioè il capitalismo- perché a suo avviso il rischio sarebbe stato quello di veder nascere il “turbo – capitalismo”, padrone assoluto del mondo e unico domino delle nuove relazioni e degli equilibri mondiali.
Molto altro andrebbe considerato. Ma la sostanza è che “turbo – capitalismo” e Stati Uniti sembrano essere un tutt’uno, con altre appendici che l’evoluzione economica ci ha fatto assistere negli ultimi trenta, vent’anni. L’America non è finita. Forse possiamo lasciarci andare a dire che è finito il “mito” costruito e che molti di noi hanno sposato soprattutto nella lontana gioventù.
Per quel che ci riguarda, la fine del “sogno americano” potrebbe essere una spinta a ritornare con più forza a rafforzare quello europeo. Nella consapevolezza di quanto sia comunque diventato più complicato perseguirlo all’insegna del pensiero dai Padri fondatori.
Bisogna, forse, accettare l’idea dell’entrata in una fase in cui più che quella Europa lì, ne venga una a “geometrie variabili” – la crisi Ucraina ne ha indicata almeno una con il “ritorno” del Regno Unito – e a velocità variabili. Perché il tipo di allargamento che si è accelerato per rispondere soprattutto alle richieste della struttura economico produttiva – cosa che però oggi consegna al mondo l’Europa come almeno alla pari con il gigante Usa e la Cina- ha finito per influire e rallentare i meccanismi istituzionali. Così come, oggettivamente, ha portato ad una fase di più diretta collisione con la Russia con cui, per tanti motivi e responsabilità, si è persa l’occasione nata ai tempi di Berlusconi di creare tali relazioni e garanzie da evitare quello che negli ultimi anni – con l’acquisizione alla Nato di ben sedici basi dell’Europa orientale – non è stato evitato
Giancarlo Infante