L’Italia – come l’Europa, del resto, ma il nostro Paese in modo particolare – ha bisogno di un nuovo disegno di sviluppo politico, sociale ed economico-produttivo che esige, anzitutto, due premesse.

La capacità di riaccendere il motore della democrazia, cioè la partecipazione attiva dei cittadini alla vita del Paese.
Non c’è nessuna riforma e nessun progetto che siano, sulla carta, talmente ben strutturati da poter vantare una propria ed intrinseca forza, capace, di per sé, di avviare a soluzione, quasi automaticamente, i problemi in cui ci dibattiamo.

Non c’è nessuna “meccanica” istituzionale che, per virtù propria, risulti efficace e risolutiva delle contraddizioni e della complessità del tempo in cui viviamo. Quando la pensiamo così – e succede spesso, su più fronti – di fatto ci consegniamo, senza avvedercene, ad una sorta di concezione “magica” del pensiero.

Senza un alto tasso di democrazia politica, economica e sociale non usciremo in piedi dalle intemperie dei giorni nostri. Occorre che tutti diano una mano, assumendo ciascuno la responsabilità che gli compete. Allenando, per quanta fatica costi, la propria capacità critica, esercitando ognuno la personale autonomia di giudizio.

La seconda premessa concerne la generosità gratuita con cui osare un progetto politico capace di andare oltre le strettoie del modello bipolare che imprigiona il discorso pubblico in uno schema preordinato di contrapposizione cieca.

Chi ritiene di aver filo da tessere dovrebbe provarci, senza troppo almanaccare circa la presunzione di un successo che a nessuno può essere garantito, quando si abbandona un sentiero fin troppo battuto per cercare un itinerario alternativo.

È necessario “de-coincidere” da noi stessi, smarcarci da categorie interpretative storicamente obsolete, da parole d’ordine abusate e consunte dal tempo, da un’omologazione acritica ad un trend consolidato di pensieri scontati, che coprono come un manto soffocante quei germogli di novità sociale che, pur, premono per spuntare da un terreno ancora arido.

Viviamo il tempo della “transizione”. Siamo spinti dalla forza degli eventi ad abbandonare il porto franco della fase storica che abbiamo fin qui vissuto per avventurarci in una navigazione incerta, verso un approdo ancora avvolto nella nebbia. Come se uscissimo dalla terra d’Egitto per avventurarci nella lunga traversata di un deserto di cui non conosciamo l’estensione. Eppure confortati dall’attesa di una nuova terra fertile che pur ancora non si scorge all’orizzonte.

La transizione evoca una “trasformazione” – lo andiamo sostenendo fin dal giorno del novembre 2019, in cui presentammo il nostro Manifesto fondativo  (CLICCA QUI) – cioè un riorientamento spirituale, anzitutto. È un po’ come se dovessimo adottare per l’intero nostro Paese l’indirizzo che un inascoltato Aldo Moro suggeriva al suo partito: il coraggio di essere alternativi a noi stessi. Ed il coraggio è, in ogni caso, premio in sé stesso.

Domenico Galbiati 

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