Di fronte al pericolo di un “Far West”normativo-amministrativo prossimo venturo ( e di un “far west”, per giunta, senza sceriffi) per la individuazione delle soluzioni a problema concessioni balneari italiane, è necessario fermarsi a riflettere sulle premesse di un groviglio che pare ormai esser diventato un “nodo gordiano”. Cominciamo da una riflessione preliminare su ciò che tutti danno per scontato ma che scontato non è per niente.
Sappiamo davvero cosa è la CONCORRENZA prevista da Codice Civile, Costituzione e Trattati europei? E, se non lo sappiamo, come possiamo discutere seriamente le soluzioni proposte dai governi in materia di concorrenza? Possiamo solo cercare di aggirare l’ostacolo, e, se non si può più giocare al rinvio, affidarci all’ “astuzia” di improbabili e oscuri negoziati.
Credo che bisogni partire dal riconoscimento di un fattore paradossale, a prima vista autolesionista. Credo si debba affermare che oggi in Italia, ed anche nella questione dei balneari, c’è bisogno di concorrenza. Viviamo un radicale cambiamento di epoca. Oggi le lobbies vere, cioè non i tassisti i balneari, o magari gli ambulanti, ma le colossali concentrazioni globali di potere tecno-finanziario, economico, politico militare, bellico, ma soprattutto mediatico, algoritmico, trans-umano si muovono in modo sempre più spregiudicato per condizionare decisioni e orientamenti economici, politici e addirittura culturali, fino a condizionare pesantemente non solo l’economia, ma anche le scelte per la pace o per la guerra, per la vita o per la morte. Ci sono sicuramente grandi concentrazioni affaristiche desiderose di mettere le mani sulla “polpa” del turismo italiano.
Se c’è bisogno di concorrenza ( non è assurdo !) per difenderci da questi poteri c’è però una distinzione preliminare da fare. La CONCORRENZA, di cui si parla tanto per i balneari, per i tassisti o per gli ambulanti ( molto meno per le concessioni autostradali o elettriche) è termine ambiguo e indeterminato. Un termine che fa arrabbiare tanti che pure hanno sofferto e soffrono, entro una “società di cortigiani”,di un sistema economico e sociale fondato su familismo, privilegio, affiliazioni segrete, “amichettismo”, scambio di favori e via dicendo. Purtroppo la CONCORREENZA si confonde spesso con la COMPETITIVITA’ oggi una panacea presentata come applicabile a tutte le crisi possibili e immaginabili. COMPETITIVITA’è in effetti qualcosa di diverso dalla CONCORRENZA. Essa significa, nel linguaggio degli economisti, non soltanto la capacità di competere, ma soprattutto l’ attitudine di una economia a migliorare la propria situazione relativa in confronto ad altre ed a conquistare le quote di mercato di altri soggetti economici, cui è necessario sottrarre spazio di crescita. Si tratta di un “progresso” in cui ciò che si “conquista” necessariamente o potenzialmente si toglie o di fatto si preclude ad altri. Come in un match sportivo, una parte non può vincere se non ve ne è un’altra che perde. Nello spirito del classico “darwinismo sociale”.
Per molti economisti la competizione è il “carburante” principale di ogni crescita economica. Ed in un ambiguo passaggio dei trattati europei parrebbe persino esserlo anche per l’UE, che basa il suo “sviluppo sostenibile” anche su “una economia sociale di mercato fortemente competitiva” ( art. 3, co.3 TUE) Dove non è ben chiaro nei confronti di chi dovrebbe valere questa competitività: competere con noi stessi o solo con altri?
Per molti oggi poi questa “logica economica” appare la più ovvia e naturale, Naturale è il “superare” altri per “conquistare” spazi di mercato o appropriarsi e monopolizzare le fonti energetiche, dato che ogni bene disponibile è potenzialmente un’arma per “battere” altri. Ed innaturale o utopistico o eccezionale sarebbe invece ogni accordo, cooperazione, o solidarietà. Del resto tra la guerra vera e propria e la competitività così intesa la distanza non è poi tanto grande. Competition, diffidence and glory sono per Thomas Hobbes le tre radici psicologiche della guerra, intesa come condizione ineliminabile e fondamentale di ciò che è umano.
La CONCORRENZA è invece ben altro. Essa è certo un principio nato dal diritto commerciale in collegamento con l’attività di impresa. Ma è un principio che ha radici antichissime, formulato soprattutto a partire dal diritto romano, un principio che riguarda l’attività di impresa, ma cui peraltro non è estraneo il pubblico interesse, un principio che include elementi di cooperazione o solidarietà di fatto. Anche se non si usava quel termine, sin dall’antichità si è infatti cercato di colpire i comportamenti collusivi, predatori e monopolistici che potevano influire sul prezzo e sulla disponibilità dei beni, soprattutto di quelli alimentari. Per questo il crimen monopolii è stato a lungo parte del diritto penale europeo.
Il monopolio, parificato all’usura nel concetto romanistico, sovverte l’ordine razionale e morale dell’economia impedendo l’esercizio di quelle virtù, le quali consentono l’uso sociale delle ricchezze e l’accesso al mercato, presentandosi, così, quale vera e propria fonte di danno in quanto antitesi della publica utilitas.
Nella tradizione anglosassone, che, più di ogni altra, ha poi elaborato il concetto, dal Medioevo in poi, tramite le sentenze dell’autorità giudiziaria, si è poi consolidato il concetto, anche se si sono introdotti al suo interno temperamenti e graduazioni. Si è fatta strada l’idea che non ogni restraint of trade, o accordo di limitazione della concorrenza tra imprenditori, sia illecito, se non oltrepassa i limiti della ragionevolezza ( rule of reason). In base ai medesimi criteri di ragionevolezza si è disciplinato anche il ricorso al monopolio pubblico e legale del sovrano – monopolio pubblico di solito, a differenza di quello privato, generalmente accettato, ma ora rimesso in dicussione- . Fino al punto di vietare ai sovrani inglesi nel 1624, con lo Statute of monopolies, di concedere nuovi monopoli pubblici e di ordinare l’annullamento di quelli esistenti, consentendo solo brevetti di breve durata per incentivare l’innovazione. E fu questa regolazione, peraltro sempre flessibile e ragionevole, che, come noto, aprì la strada alla prima rivoluzione industriale. E fu questa regolazione ad aprire la strada anche al diritto anti-trust negli USA.
La concorrenza nasce o si rimodella quindi in epoca moderna come sistema di regole che serve a garantire la libertà di iniziativa privata, che è un po’ il suo vero fine. Essa non è dunque una “legge del più forte” o del “più efficiente” , non è una norma generale ed astratta che vincola rigidamente i comportamenti economici, sacrificando certo, ma con finalità buone, i più deboli alla “frusta” del “progresso”. E’ piuttosto una situazione di fatto, un set di relazioni che è conformato da un’ azione regolatrice esterna ed è tenuto in essere proprio da quelle regole, che impediscono, nelle diverse condizioni, che l’azione economica finisca per limitare proprio la libertà di iniziativa economica.
Che non ogni “concorrenza” genericamente intesa andasse bene lo aveva intuito due secoli fa un liberaldemocratico come Antonio Rosmini scrivendo che alla concorrenza come principio astratto ed assoluto che “si erge ad unico fonte e principio di giustizia” e che agisce come principio di azione va opposta una diversa concorrenza intesa come mezzo preceduto e conformato dal diritto, cioè una concorrenza regolamentata, una concorrenza che “ invece di essere causa della giustizia non è che l’effetto di una giustizia che precede al diritto di concorrenza e precedendo lo determina”[1].
Ma non diversamente, un secolo dopo, si esprime Luigi Einaudi. Per lui la concorrenza è soprattutto un ordine che esclude i monopoli legali ( ed anche quelli di mercato) oltre ai “cartelli” cioè agli accordi tra produttori indipendenti per fissare condizioni comuni per limitare la concorrenza sul proprio mercato fissando come parametri le condizioni di vendita, il livello dei prezzi o altro.
Luigi Einaudi però fa anche altro, mette in guardia da un potenziale risvolto politico negativo di una concorrenza “deregolata” intesa come elemento che può de-strutturare economia e società. “Non tutti i partecipanti al gioco economico, secondo Einaudi, sono fatti per reggere la pressione competitiva del mercato in ogni momento, senza tregua. Troppa concorrenza aprirebbe la strada a regimi autoritari che promettono di proteggere i deboli e di governare l’incertezza.[2]
“Il principio si salva solo riconoscendo la verità del suo opposto, solo restringendo l’operare del mercato di concorrenza e creando territori nei quali esso non è chiamato ad agire , perché la sua azione estesa al di là di un certo punto , diventa dannosa alla struttura sociale” ( Einaudi 1942)[3]”
Si avverte dunque il pericolo della “deregulation” concorrenziale – pensiamo al thatcherismo ed ai suoi effetti – ed anche il pericolo di una finta “regolazione” che lascia tutto nelle mani del mercato. La concorrenza vera-non falsata- che conosce limiti chiari e definiti è invece un elemento intrinseco e necessario per la democrazia liberale, mentre una “concorrenza deregolata” è una spinta alla alterazione o alla manipolazione della democrazia attraverso gli effetti sociali dell’ incertezza o del rischio.
E di una concorrenza vera c’è bisogno forse anche per affrontare e risolvere il problema della risistemazione delle concessioni balneari italiane. E soprattutto per tutelarne il futuro.
Umberto Baldocchi
[1] Antonio Rosmini, Filosofia della politica, Città Nuova editrice, Roma, 1997 ed. orig. 1839, p. 444.
[2] Alfredo Gigliobianco, Cristina Giorgiantonio, Concorrenza,mercato e crescita in Italia, il lungo periodo, Banca d’Italia, Conferenza, ottobre 2014, P. 9
[3] Luigi Einaud 1942 così cit. in: Alfredo Gigliobianco, Cristina Giorgiantonio, Concorrenza, mercato e crescita in Italia: il lungo periodo, Banca d’ Italia, 29/30 ottobre 2014m dattiloscritto, p.9
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