C’è qualcosa che non mi convince nell’attuale dibattito sul Disegno di legge riguardante l’autonomia differenziata approvato dal Consiglio dei ministri che propone di trasferire una parte delle competenze istituzionali e delle risorse finanziarie che fanno capo allo Stato alle Regioni sulla base di una loro specifica richiesta. Il Ddl prevede che la praticabilitaà del trasferimento delle competenze e delle risorse venga subordinata alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) da garantire a tutti i cittadini sul territorio nazionale e all’approvazione delle singole intese da parte del Parlamento.
La principale critica rivolta alla proposta del Governo è quella di fossilizzare, per via del trasferimento delle risorse storicamente impegnate dallo Stato sui singoli ambiti di intervento selezionati dalle Regioni, le notevoli differenze economiche e sociali esistenti tra i territori e di determinare in questo modo le condizioni per un l’ampliamento delle disuguaglianze esistenti. Alcune contestazioni arrivano persino a considerare il Ddl come parte di un disegno eversivo che ha come obiettivo finale la secessione in via di fatto da parte delle regioni del Nord Italia che hanno consultato su questo tema i cittadini dei loro territori con la promozione di specifici referendum.
Questi problemi, in particolare la scarsa efficacia delle quote vincolanti nell’assegnazione delle risorse e dei meccanismi di intervento decisionali sussidiari disposti dallo Stato, li ritroviamo nella attuazione del Pnrr. Aggravati dalla palese impossibilità di contrastare i ritardi burocratici nel breve periodo con l’innesto di nuovo personale nelle pubbliche amministrazioni, programmata dal precedente Governo con l’utilizzo di una parte delle risorse del Pnrr.
Il problema non può essere aggirato con approcci meramente teorici, tantomeno può essere risolto con trasferimenti di risorse pubbliche a somma zero nell’ambito nazionale che penalizza l’utilizzo efficiente e produttivo delle stesse. A fare la differenza è la capacità effettiva dei vari ambiti territoriali di attrarre gli investimenti e le risorse umane in un contesto di elevata mobilità dei capitali e delle persone. In poche parole, dobbiamo toglierci dalla mente che lo sviluppo economico possa essere pilotato dall’alto sulla base dei modelli adottati nel secondo dopoguerra per accelerare il passaggio dalle economie agricole a quelle industriali.
Questo non significa affatto che la proposta di Ddl approvata dal Consiglio dei ministri rappresenti la risposta ideale alle criticità evidenziate. Subordinare l’intero blocco dei percorsi parlamentari al trasferimento, anche parziale, delle competenze alla definizione di una mole infinita e del tutto teorica dei livelli essenziali delle prestazioni, oltre che richiedere in parallelo un’altrettanta disponibilità di risorse finanziarie per assecondare tale obiettivo, rischia di vanificare anche le soluzioni più ragionevoli e diluite nel tempo che andrebbero costruite sulla base di una realistica capacità delle singole regioni di gestire le competenze in modo più efficiente. L’esperienza maturata nella sanità e nelle politiche attive del lavoro non assicura il risultato desiderato. Il decentramento spinto ha anche privato lo Stato di strumenti per assicurare, anche parzialmente, i rimedi con interventi e strumenti sussidiari.
Come abbiamo sottolineato, la capacità di ricostruire un capitale sociale adeguato, non solo di infrastrutture e di efficienti apparati amministrativi, ma soprattutto di tessuto imprenditoriale e di qualità delle risorse umane, porta a non delimitare gli ambiti delle riforme possibili a quelli relativi al trasferimento delle competenze istituzionali. Ad esempio, in questa fase di ripensamento delle filiere produttive a livello globale risulta indispensabile uno sforzo collettivo nazionale per attrarre nuovi investimenti. La dimensione dell’economia sommersa in molti settori risulta impedisce il salto di qualità e distorce la produzione e la redistribuzione del reddito. Questi temi, purtroppo, vengono costantemente aggirati per assecondare una domanda di interventi assistenziali a carico dello Stato che crea malcontento nei ceti più produttivi.
Coloro che dissentono legittimamente dal Ddl sull’autonomia differenziata varato dal Governo hanno pertanto il dovere di mettere in campo delle proposte alternative rivolte a rimediare le evidenti criticità dell’attuale distribuzione delle competenze istituzionali e delle risorse, anziché limitarsi a difendere un modello che concorre a generarle in modo palese.
Il corretto esercizio della democrazia e il buon funzionamento delle istituzioni non possono prescindere dalla verifica della capacità degli eletti dal popolo di gestire in modo efficiente le risorse messe a disposizione.
Natale Forlani
Pubblicato su Il Sussidiario.net