Come non molti sanno, il debito pubblico è stato inventato nelle città-stato italiane del tardo Medioevo per uno scopo molto preciso: evitare il tracollo di tali città quando si profilava un’emergenza. Di emergenze ce n’erano sempre tante: c’erano le epidemie, anche se talora di gravità inferiore a quelle letali di peste, che si portavano via il 30/40 percento della popolazione in poche settimane; c’erano le carestie e poi le guerre. L’idea di chiedere ai ricchi dell’epoca di anticipare liquidità ai governi per far fronte alle emergenze, in cambio del pagamento di un tasso di interesse, era gradita agli stessi ricchi, che appoggiavano lo sforzo dei governi (guidati spesso da loro) di non lasciar morire le persone e con esse l’attività economica.

La storia dice che questo modello di intervento venne poi abbracciato da tutti i governi delle città e paesi che volevano mantenersi su una traiettoria di sviluppo. Infatti, era noto anche all’epoca che gravi shock possono produrre fasi di declino devastanti, che i paesi che si sono sviluppati hanno cercato di superare, con l’esclusione purtroppo delle più gravi guerre, in cui prevaleva sulla saggezza “economica” la volontà di potenza.

Per fare un esempio, quando l’Italia dovette affrontare la III guerra d’indipendenza nel 1866, le finanze dello stato dell’epoca appena formatosi non erano in grado di farvi fronte. Il governo concepì allora una misura che rimase unica nel suo genere: un prestito “forzoso” redimibile, che evitava una patrimoniale. I contribuenti vennero divisi in 4 categorie, la più bassa era esente e le altre tre dovevano partecipare per quote crescenti. L’operazione riuscì e il paese potè affrontare la guerra e ottenere, come è noto, il passaggio del Veneto all’Italia, senza collassare.

Nel corso della prima metà del XX secolo, la devastante crisi del 1929 ha suggerito al grande economista John Maynard Keynes di aggiungere alla prassi vigente un altro caso considerato di emergenza nelle società moderne, ossia la crisi economica. Da allora molti sono stati i governi che sono ricorsi alla spesa in deficit (che causa l’accumulazione di debito pubblico) per fronteggiare le crisi economiche e non interrompere lo sviluppo. Mai nessuno aveva però pensato che lo strumento del debito pubblico potesse essere usato normalmente e non solo temporaneamente per fronteggiare qualche emergenza. Quei governi che non si comportarono di conseguenza andarono in default, ossia si resero incapaci di ripagare i debiti e vennero fortemente penalizzati con una caduta dell’attività economica. In generale questo è avvenuto solo per motivi bellici.

Ma lentamente le cose sono cambiate e stanno mettendo a dura prova l’uso corretto del debito pubblico. In primo luogo, si sono profilati governi nei paesi in via di sviluppo, soprattutto in America Latina, che, non essendo capaci o desiderosi di affrontare i problemi strutturali delle loro nazioni, hanno ritenuto di metterci delle pezze con una spesa pubblica sempre senza copertura. Come è noto, questo comportamento provoca inflazione della moneta (perché la Banca Centrale è richiesta di stampare moneta addizionale per coprire i deficit di bilancio), un’alterazione permanente dell’economia, una perdita di fiducia dei cittadini, la fuga dei capitali all’estero, instaurando un circolo vizioso che è difficile da interrompere. Più recentemente, con la globalizzazione e l’insorgere di forti diseguaglianze, anche alcuni paesi avanzati si sono trovati in difficoltà a restare al passo con la loro competitività e sono ricorsi al debito pubblico non per fronteggiare emergenze, ma per coprire i loro problemi strutturali con una continua spesa pubblica in deficit. Se questo comportamento non ha scatenato inflazione questo è “merito” di accordi internazionali (come far parte del Sistema Monetario Europeo e dell’Euro) che glielo impedivano, ma il problema resta aperto.

Fin qui il discorso è stato generale. Applicandolo ora alla presente situazione, va detto che l’epidemia di Covid-19 è sicuramente un’emergenza e dunque va trattata con debito pubblico aggiuntivo, sapendo però che l’aggiunta di altro debito pubblico a paesi che già ce l’avevano alto come l’Italia non è una buona notizia. Va comunque fatto, perché la priorità è mettere in sicurezza più vite possibili ed evitare che aziende e famiglie falliscano, ma una importante considerazione va aggiunta. Non sarà l’Unione Europea ad impedire all’Italia o ad altri paesi dell’Unione di affrontare il Covid-19 con un’aggiunta di debito pubblico, ma quando l’emergenza sarà finita non è che tutto possa ritornare come prima. Il mondo avrà bisogno di importanti trasformazioni e diventerà sempre più cruciale per poterle realizzare insieme ai paesi che sicuramente le fronteggeranno avere un sistema di pubblica istruzione adeguato, una spesa per la ricerca che possa mantenere in Italia i molti giovani italiani di talento che sono stati costretti ad emigrare, aziende sostenute nel loro sforzo di innovazione, un sistema infrastrutturale rinnovato (penso anche alle infrastrutture informatiche). Si può pensare che tutto questo si possa fare con altro debito pubblico?

La risposta è certamente negativa. È allora che il paese dovrà dimostrare una vera coesione sociale. È bello vedere oggi che molti italiani cercano di esprimere capacità di resistenza e solidarietà per affrontare il Covid-19 con varie iniziative da casa; fa aprire il cuore. Ma ciò che importa è che governi responsabili si dovranno far carico alla fine dell’emergenza di disegnare un nuovo corso per il paese, chiedendo collaborazione a tutti i cittadini. Bisogna andare oltre le istituzioni così come sono disegnate ora e attivare una sussidiarietà circolare fra stato, aziende e società civile, aprendo tavoli di consultazione sulle varie priorità del paese che ho sopra indicato, in cui si discutano fini, mezzi e risorse. I cittadini devono essere messi a giorno del fatto che una parte maggiore delle loro risorse (pro quota, naturalmente) vanno dirottate dai consumi presenti su investimenti che diano un futuro alla nazione e quindi a loro stessi. Spesso si invoca a questo punto una “patrimoniale”. Intanto va chiarito che l’idea di una patrimoniale una tantum non è una bestemmia e non è un’idea così peregrina, se serve a rimettere in carreggiata un paese, ma può essere politicamente difficile da realizzare.

Ritengo che oggi si possa ottenere migliori risultati con un approccio diverso, ossia mettendo in campo i cittadini stessi a identificare soluzioni, a cui poi contribuire sia col loro lavoro, sia con i loro mezzi. L’attivazione di una stretta collaborazione tra pubblico e privato potrebbe trovare realizzazione in settori come la ricerca e la dotazione infrastrutturale del paese, mentre una stretta collaborazione fra aziende, stato e Terzo Settore potrebbe migliorare tanti servizi alla società. Potrebbero essere create fondazioni che si prendano in carico certe attività e introdotte tasse di scopo (per loro natura una tantum) per ottenere specifici obiettivi. Se non si apre ad una creatività istituzionale e non si fa leva su quel comune destino che il Covid-19 ci ha ricordato, un paese impantanato come l’Italia per tanti errori passati non si potrà rimettere in moto. Dopo il glorioso Ri-nascimento e il Ri-sorgimento realizzato con successo, l’Italia può ambire ad una magari più modesta, ma necessaria Ri-partenza. Come nei casi passati, però, o ai tempi del miracolo economico, occorre rialzare la testa dalla routine quotidiana, abbandonare le strade che si sono rivelate dei cul-de-sac e porsi degli obiettivi ambiziosi.

 Vera Negri Zamagni

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