C’è stato un tempo in cui l’Italia cresceva. Cresceva economicamente, socialmente, culturalmente. Un tempo in cui il nostro Paese, guidato da una classe dirigente formata nella scuola della responsabilità, della mediazione e del bene comune, raggiunse traguardi di progresso mai visti nella storia del Regno d’Italia, né tanto meno nella confusa e incerta Seconda Repubblica.
Quel tempo fu segnato dalla presenza di un grande partito popolare, interclassista e democratico: la Democrazia Cristiana. Non era perfetta, certo, ma aveva una visione. Fu capace di includere anime diverse – cattolica, liberale, sociale, riformista – e di fare sintesi nel nome dell’interesse nazionale, europeo e atlantico.
Con la fine della Prima Repubblica e l’illusione di una rigenerazione politica nata dalle macerie di Tangentopoli, molti speravano in un nuovo inizio: maggiore trasparenza, efficienza, moralità pubblica, progresso sociale. La realtà, però, è stata ben diversa.
La Seconda Repubblica ha prodotto un bipolarismo inconcludente, più orientato alla propaganda che alla soluzione dei problemi reali del Paese. E oggi, un’Italia stanca e disillusa è ferma in un pantano di demagogia, personalismi e frammentazione, incapace di ritrovare una rotta condivisa.
Crisi della democrazia e bisogno di rappresentanza
I dati parlano chiaro: oltre il 40% degli italiani non va più a votare. Non è solo astensionismo: è una crisi profonda di fiducia nella democrazia rappresentativa. È la spia di un malessere sistemico, che colpisce soprattutto i ceti medi e popolari, un tempo cuore pulsante della partecipazione democratica.
L’assenza di un partito popolare di ispirazione cristiana ha lasciato un vuoto enorme: non esiste oggi una forza capace di parlare con linguaggi diversi a mondi diversi, di fare da ponte tra le istanze sociali, economiche e culturali che attraversano il Paese. La politica si è fatta rissosa, urlata, autoreferenziale. E quel principio di fraternità civile che animava l’esperienza della Democrazia Cristiana – e prima ancora del popolarismo sturziano – si è smarrito nei meandri di un confronto spesso sterile e ideologico.
In un celebre passaggio, Benedetto Croce affermò che “non possiamo non dirci cristiani”. Oggi potremmo dire che la democrazia italiana non può sopravvivere senza una forza politica che, pur nel rispetto del pluralismo e della laicità delle istituzioni, tragga linfa dalla dottrina sociale della Chiesa. Una forza che ponga al centro la dignità della persona, la solidarietà, la sussidiarietà e la giustizia sociale.
La Rete di Trieste: un segnale di speranza
In questo contesto, nasce l’esperienza della Rete di Trieste, promossa da amministratori locali, esponenti del mondo cattolico e operatori della società civile. Non si tratta di un semplice coordinamento territoriale, ma di un progetto politico che vuole ricostruire, dal basso, una presenza civica e culturale ispirata ai principi del personalismo cristiano. Il manifesto fondativo della Rete richiama esplicitamente i valori della dottrina sociale della Chiesa, la centralità della persona, l’attenzione ai territori e ai più fragili, la difesa della democrazia liberale e rappresentativa. La Rete non è ancora un partito, ma è già qualcosa di più di un laboratorio di idee. Si va strutturando in diverse regioni italiane, si pone in ascolto delle comunità locali, e mira a selezionare una nuova classe dirigente competente, onesta e radicata.
In tempi in cui le sigle nascono e muoiono nel giro di una stagione, l’orizzonte che si delinea è quello di un progetto a lungo termine, capace di costruire alleanze, ma soprattutto di rappresentare valori e interessi concreti.
Un nuovo soggetto politico?
L’auspicio è che, proprio dai territori e da iniziative come la Rete di Trieste, possa sorgere un nuovo soggetto politico dei cattolici italiani. Un partito non confessionale, ma autenticamente ispirato, inclusivo e aperto al dialogo con altre culture politiche. Un partito che torni a parlare al Paese reale, alle famiglie, ai giovani, agli imprenditori, ai lavoratori, a chi si prende cura degli altri e del bene comune.
La storia, come insegnava Giambattista Vico, è fatta di corsi e ricorsi. Se è vero che nulla si ripete mai identico, è anche vero che le grandi idee possono ritrovare nuova forza in tempi nuovi. E allora ben venga questo primo passo. Perché senza una forza popolare, interclassista, cristianamente ispirata e saldamente ancorata ai valori europei e occidentali, la democrazia italiana rischia di diventare un simulacro svuotato. È tempo di costruire. È tempo di unire. È tempo di tornare a credere.
Michele Rutigliano