Ci sono spunti di grande interesse nell’articolo, pubblicato la scorsa settimana, su queste pagine da Massimo Molteni (CLICCA QUI), neuropsichiatra infantile, che coordina il lavoro che “ Insieme” sta sviluppando in queste settimane in ordine al tema della salute e delle politiche connesse. Due, in modo particolare: la necessità di mettere a punto concetti di salute e, contestualmente, di malattia, di cura e di guarigione che siano in grado di rispondere alle sensibilità di un contesto inedito, in particolare sul versante delle tecnologie applicate alla sanità. E così per quanto concerne la responsabilizzazione del cittadino, in ordine al suo personale progetto di salute.
Temi che hanno il merito di spingersi oltre la considerazione della crisi di cui soffre il nostro Sistema sanitario, in termini meramente strutturali, per richiamare piuttosto il rilievo e la centralità del fattore umano. Come nella scuola la qualità del docente, anche – e forse a maggior ragione – pure in campo sanitario è la professionalità – e l’attitudine “empatica” – del medico, ed in generale dell’operatore sanitario, a fare la differenza. In altre parole, la “prossimità”.
Per quante innovazioni tecnologiche si possano immaginare e per quanto importante sia il concorso dell’ Intelligenza Artificiale alle procedure diagnostiche, la medicina continua ad essere – e tale irrevocabilmente rimarrà – anzitutto “clinica”. Il che etimologicamente significa “chinarsi sul giaciglio del paziente”.
La relazione tra medico e paziente rappresenta una tipologia di rapporto umano tra le più coinvolgenti per ambedue le persone che stanno, una di fronte all’altra, in un rapporto asimmetrico. Ad esempio, nel momento della comunicazione di una prognosi infausta, che pur deve lasciare uno spiraglio aperto alla speranza. L’atto medico incrocia una “persona”, un soggetto nella sua irriducibile singolarità, che, in nessun modo, può essere “oggettivato”, quasi si trattasse di un preparato anatomo-funzionale oppure una sorta di “automa biomolecolare”, passibile di essere ridotto alla logica algida e sequenziale dell’algoritmo.
La raccolta dell’ anamnesi e l’esame obiettivo – i momenti essenziali del primo approccio al paziente, necessari ad aprire la cartella clinica e da cui ricavare una prima ipotesi diagnostica che orienti il percorso successivo – non sono, in alcun modo, procedure “meccanizzabili”. Non bastano le parole. Bisogna ascoltare il pudore, le reticenze i silenzi del paziente; leggere il linguaggio del corpo spesso più spontaneo e libero, meno mediato di quello verbale.
“Clinica” vuol dire conoscere a fondo, nei suoi dettagli più sottili, la semeiotica medica e chirurgica. Significa saper ascoltare il corpo e saperlo interrogare. Come sapevano fare molti cosiddetti “baroni” che abbiamo mandato a quel paese – in effetti di più – negli anni attorno al fatidico ‘68. In realtà, per baroni che fossero si trattava di grandi clinici che sapevano fare diagnosi complesse a mani nude, salvo solo poi chiedere esami strumentali mirati a conferma o meno dell’ipotesi formulata. Peraltro – e questo aspetto meriterebbe un esame apposito – guarire non significa soltanto ristabilire gli equilibri bio-umorali, l’omeostasi dell’organismo. Ma anche riportare la malattia – oggi percepita, anche più che in altri tempi, a dispetto dell’enorme crescita delle potenzialità terapeutiche, come un evento distruttivo – dentro un orizzonte di senso compiuto della vita.
Domenico Galbiati