Il tema di un nuovo paradigma per forze politiche che intendano affrontare la sfida del nostro tempo, come è stato proposto in un recente articolo da Giancarlo Infante, merita di essere ripreso.
Nel nostro Paese – dopo la crisi dei grandi partiti popolari del secolo scorso, che risalivano a sistemi di pensiero che avevano mosso le loro prime esperienze, strutturate sul piano sociale, addirittura nell’ 800 e sulla base di queste avevano poi maturato la forma di partito – dalla metà degli anni ’90 e fino ai giorni nostri, sono comparse, formazioni politiche dall’ impianto e dalla foggia stramba.
Sostanzialmente tutte accomunate da un acceso “leaderismo”, cioè da una forte personalizzazione che, oltre a rispondere ad un atavico vizio degli italiani che amano l’ “uomo forte”, conosce altre con-cause: dalla spettacolarizzazione della politica, alla difficoltà di definire piattaforme progettuali e programmatiche, che, da un certo livello di complessità in poi, sono difficili da comporre secondo una logica univoca, talché viene naturale cedere il passo e delegare il momento della sintesi, anziché al “concetto” che pare inafferrabile, alla suggestione assorbente dell’ “immagine” che si sostanzia nel “capo”.
E’ nel “carisma” del capo, nella sua immagine accattivante, nel suo tratto perentorio e rassicurante che si risolvono le incertezze e le contraddizioni si appianano. Ci si identifica idealmente con una guida, una figura ideale che trascende le conflittualità del momento, assolve dalla fatica psicologia e cognitiva di un giudizio critico e personale.
Si tratta, letteralmente, di un pericoloso processo di “infantilizzazione” del pensiero che, infatti, non a caso, compie a ritroso il percorso secondo cui il bambino, nelle prime fasi del suo sviluppo mentale, passa dal pensare ciò che manipola, all’immagine e poi, finalmente, al concetto. Ma tant’è, questo è quanto passa il convento.
Il concetto è armonico, ma può essere ispido e contrastato, l’immagine è, per lo più, levigata e rotonda, omnicomprensiva e coinvolgente. Del resto, dallo stadio dell’ immagine si può scendere di un altro gradino e, al livello, appunto, della manipolazione, imbattersi nei mitico ed osannato ”uomo del fare”. Ma, per tornare al cuore del nostro tema, oggi, se vogliamo ridare nerbo e vigore ad una vita democratica che sia consapevole ed attiva, davvero partecipata, se, in altri termini, vogliamo costruire un sicuro ordinamento democratico per il tempo post-moderno, non possiamo fare a meno di riflettere sulle nuove forme secondo cui strutturare forze politiche che siano appropriate alla temperie dei nostri giorni.
Viviamo in un ambiente civile plurale ed articolato, molto meno stratificato di quanto non fosse, ad esempio, nell’immediato dopo-guerra. Viviamo in un contesto che viene descritto come frammentato, sgranato, informe fino ad apparire liquido e le stesse coscienze individuali sono attraversate da versanti non sempre facilmente componibili.
Fatichiamo ancora a comprenderlo, non vogliamo ammettere che le dissonanze che si confondono nel frastuono di fondo che quotidianamente percepiamo, in definitiva ci arricchiscono; piuttosto abbiamo nostalgia di un mondo lindo, organico, omologato e ricondotto ad una illuministica e tonda forma razionale, che, peraltro, come tale non e’ mai esistito, per quanto continui ad essere nelle nostre aspirazioni.
Eppure il mondo apparentemente sfatto, animato da una pluralità incomponibile di soggetti della più varia forma, è straordinariamente aperto, dotato di una plasticità che dovrebbe accendere ed entusiasmare la nostra creatività, alla ricerca di forme nuove e più avvincenti di convivenza civile. In buona sostanza, il nostro tempo ci sfida e c’è forse qualcosa di provvidenziale – e, per chi non crede, qualcosa di numinoso o di fatale, intrinsecamente necessario – in questa prova che dobbiamo saper reggere.
Lo stesso mondo cattolico, al di là del momento ecclesiale, nelle sue manifestazioni culturali, politiche e sociali è mosso da un pluralismo, che non va demonizzato, ma, anzi, riconosciuto come un valore. Non suoni strano, dunque, che, in questo quadro in trasformazione, rientri anche la politica ed i suoi attori, quindi pure i partiti.
Siamo in una fase storica in cui la politica va snidata dal “palazzo”. Va assunta come “funzione diffusa”, da portare tra la “gente” perché cessi di essere tale e diventi “popolo”. Non può più essere appannaggio esclusivo e monopolio di istituzioni e partiti. Questi ultimi, poi, devono rispondere ad un retroterra di cultura, ad un pensiero che dia conto di una visione perché è attorno a questa – e non, di volta in volta, ad esempio, secondo una logica referendaria, per temi singoli e separati – che si rapprende una partecipazione vera, continuativa e consequenziale, una condivisione che venga avvertita come impegnativa.
Del resto, solo un principio o un sistema di valori pre-ordinato a monte consente di rendere reciprocamente compatibili le mille determinazioni che la politica deve incessantemente assumere, cosicché la ricchezza plurale di cui si diceva, non si dissolva in un fuoco d’artificio, ma si raggrumi in una prospettiva, dentro un orizzonte di senso. La politica, intesa, dunque, non come mero esercizio di potere, bensì, anzitutto, come capacità di “pensare politicamente”, consapevole, pur nella sua opinabilità, che un compito di verità appartiene.
Insomma, la politica semplicemente compete a chi la sa fare. D’altra parte, non sono più pensabili i ”partiti di massa”, schierati l’uno di fronte all’altro, pronti ad ingaggiare una battaglia campale, come negli anni della guerra fredda. Partiti a vocazione piramidale, che militarizzavano i rispettivi campi.
In una società perennemente mobile, mutevole, mossa da ritmi frenetici ed incalzanti, da una logica gerarchica e verticale che si esprimeva da una parte nel “collateralismo”, dall’altra nel “centralismo democratico”, è necessario passare ad un modello fondato su rapporti orizzontali in “rete”, fatto di relazioni e di corrispondenze biunivoche tra soggetti politici ed altri che assumono compiti differenti e funzioni diverse, di carattere sociale, culturale, nell’ambito del volontariato e del Terzo Settore.
I partiti hanno bisogno di uno scambio vitale con ambienti che innervano la società, studiano ed elaborano, formano competenze, promuovono una più viva coscienza civile e, a loro volta, non possono fare a meno di una sintesi che dia, anche alle loro aspirazioni, uno sbocco politico. Il quale, in questo moto circolare di reciproche corrispondenze, spetta al partito garantire, nelle pertinenti sedi istituzionali.
Nella rete i rapporti sono paritari, le identità sono riconosciute e rispettate nella loro reciproca autonomia, non compromesse da fusioni improprie, anzi corrispondono ai nodi che danno tenuta all’insieme. Quindi, anche per chi concorra al discorso pubblico ed all’azione politica, nel solco di una chiara ed esplicita ispirazione cristiana, il partito dev’essere un’organizzazione agile, dai riflessi pronti, pur sempre radicata nei territori e snella.
Una testa di ponte avanzata che esplora un’area sterminata e come la navetta di un telaio incessantemente corre da una estremo all’ altro della tela, tessendola filo su filo.
Domenico Galbiati