Se si tracciasse un’analogia, si ricercasse una qualche corrispondenza, un parallelismo tra il conflitto in atto, a livello globale, fra democrazie e regimi autocratici e, per altro verso, il confronto, all’interno delle prime, fra un orientamento partecipativo e popolare ed un altro, invece, d’impronta leaderistica e tendenzialmente autoritaria, se ne dovrebbe concludere che, comunque la si metta, l’una dinamica e l’altra mostrano come gli ordinamenti democratici oggi siano oggettivamente in difficoltà, esposti ad una temperie che ne mette a dura prova la tenuta. Il punto è che siamo in mezzo al guado.

Nella transizione tra l’età moderna che ha coltivato il primato della ragione, anche mitizzandola, e conseguentemente aspirava allo sviluppo di strategie strutturate, di programmazioni onnicomprensive, di progettualità organiche e, per contro, l’età che, non sapendo dirne di più, per ora, convenzionalmente, chiamiamo “post-moderna”.
Al tempo ordinato della ragione positiva succede la stagione scomposta del frammento, cosicché ad un atteggiamento rassicurante, di possesso e di confortevole dominio delle cose del mondo, si va sostituendo un sentimento doloroso di precarietà esistenziale. Una condizione di fragilità interiore, una sorta di stato d’ animo di permanente allarme, una penosa attesa di un che di indecifrabile e larvatamente minaccioso che appanna l’orizzonte della vita e ne incupisce il tempo. Questo vale per le persone singole e per le collettività e, dunque, investe pure la politica, le sue categorie interpretative, le sue risorse.

Avevamo o pensavamo di avere una forte “presa” su tutto ciò che ci attornia e l’abbiamo irrimediabilmente smarrita.
Lo attesta chiaramente la crisi dell’equilibrio naturale che abbiamo maramaldeggiato presi dall’hybris della scienza e della tecnica, anzi, della “tecno-scienza”, secondo un’ inversione terminologica apparentemente banale ed, invece, carica di significato. Coltiviamo nei confronti di chi sia “diverso” – anzitutto, lo straniero, il migrante – paure, tensioni, timori e rancori, sospetti, diffidenze che sono, in effetti, la proiezione di una interiorità problematica e scossa, che cerca, fuori di sé, per allontanarla da sé, la ragione di un turbamento che la inquieta, quasi fosse un nemico che la abita, pervade il suo vissuto e non riesce ad espungere.

I femminicidi, l’abuso e la violenza sui minori sono la punta di un iceberg che galleggia in un mare di terribile fragilità affettiva, che, nel migliore dei casi, compromette la stabilità del vincolo familiare e, nei peggiori, tocca vertici criminali. Ma, tornando a bomba, al tema della democrazia, dovremmo chiederci: ci sono rimedi? E’ indispensabile ricorrere, pur secondo differenti declinazioni, all’”uomo forte”, come molti ambienti ritengono e non solo a destra?
Oppure – come in effetti è – la condizione “sine qua non”, la ragione fondativa perché una democrazia resti tale, forte e salda, altro non è se non la salvaguardia di un ordinamento parlamentare e rappresentativo?

La sovranità appartiene al popolo, non alla sue caricature demagogiche o nazional-populiste che, di fatto, lo espropriano della sua fondamentale prerogativa costituzionale. Basta una difesa ferma, ma inerte e sostanzialmente attendista e passiva di un tale ordinamento perché possa resistere, ad esempio, nel nostro caso, alle spinte “presidenzialiste”? In realtà, la crescente complessità sociale, le difficoltà che la politica con i suoi tempi, la democrazia con i suoi riti registrano nei confronti di mutazioni che si accavallano incessantemente esigono che vi siano, nei nostri sistemi politico-istituzionali, importanti iniezioni di “democrazia deliberativa”.

E’ necessario creare momenti di riflessione, inventare luoghi dedicati all’ argomentazione, spazi di pensiero critico, scenari di confronto diretti allo sviluppo di una personale autonomia di giudizio che faccia crescere il tasso complessivo di maturità civile della comunità, nel segno di quell’ attitudine al “pensare politicamente”, essenziale alla fruizione ed al pieno esercizio del diritto di cittadinanza.

Gli interessi particolari che attraversano, per ogni dove, la società civile e si addensano nella pluralità dei corpi intermedi, a loro volta, esigono spazi entro cui smussare reciprocamente le asperità di ognuno ed avviare quei processi di ricomposizione che, tradotti in termini di rappresentanza parlamentare, solo nel vivo delle dinamiche istituzionali possono approdare a mediazioni costruttive, capaci di ricondurli all’interesse generale della collettività. La governabilità che giustamente preoccupa è una funzione della rappresentanza, non viceversa.

Troppe volte, con le leggi maggioritarie e con la cervellotica riduzione del numero dei parlamentari, si è ritenuto di piegare, manipolandole, le ragione della rappresentanza alla governabilità. La quale può essere effettivamente tale solo a condizione di dar luogo ad un campo di solidarietà, di consonanze e di consensi che non possono essere dettati ed imposti da un potere centrale che, anziché fondere gli interessi particolari in un orizzonte di aspirazioni comuni, tutt’al più li potrebbe allineare come canne d’organo, forzosamente ordinati, ma separati, ma non comunicanti, né integrabili. Insomma, o c’è una partecipazione attiva, motivata, cosciente al “discorso pubblico”, come lo chiama Jurgen Habermas che ne propone un metodo, anzi un’etica, oppure le nostre democrazie rischiano davvero di appassire e di spianare la strada a pericolose forme involutive che potrebbero salvarne la facciata, giusto per comprometterne, impunemente, la sostanza.

“Etica del discorso pubblico” e “democrazia deliberativa”: ambedue prendono le mosse dal riconoscimento e dalla reciproca legittimazione tra le parti, in carenza della quale nessuna forma di dialogo risulta possibile. Non a caso, a tale proposito, Habermas, campione del pensiero post-metafisico e dichiaratamente ateo, almeno dal punto di vista metodologico, insiste soprattutto sul riconoscimento che, da parte laica, va riservato a chi reca, sul piano del pubblico confronto, quelle istanze religiose, che – per quanto ritenga debbano essere “demitizzate” e tradotte in un linguaggio secolare – riconosce come riserva insostituibile di valori e talenti, non più rintracciabili altrove e pur necessari ad innovare ed orientare il contesto civile.

La riscossa della democrazia, la sua attitudine a “comprendere”, a contenere la spinta centrifugava della complessità dentro il raggio della sua azione è anche e forse eminentemente, una questione di carattere morale, che attiene, cioè, i costumi, i comportamenti, le modalità, solidali oppure pregiudizialmente conflittuali, con cui i soggetti attivi dentro una collettività si relazionano tra loro. In altri termini, viviamo una stagione tale per cui la democrazia non è più solo un diritto da rivendicare, ma anche, forse soprattutto, un dovere da compiere che sta in capo ad ognuno.

Spetta alle forze politiche assumere forme nuove, adatte a concorrere – ed è triste dirlo in un momento di alta astensione dal voto – a questo necessario arricchimento della rappresentanza democratica. Portando proposte “politicamente” strutturate nel cuore delle istituzioni, ma anche snidando la politica dal palazzo per riportarla sui territori e tra le persone che li vivono.

Domenico Galbiati

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