La democrazia è oggi in gravi difficoltà più o meno in tutte le aree del mondo. Gli “assalti ai palazzi delle istituzioni” dei seguaci di Bolsonaro in Brasile, come quello dei seguaci di Trump a Capitol Hill un anno fa, manifestazioni certo grottesche oltre che eversive e violente, testimoniano che il responso elettorale delle votazioni democratiche ha perso il carattere vincolante nei confronti di una larga parte dei cittadini e che esso può essere addirittura contestato “a furore di popolo”, stabilendo quasi una equazione tra la forza del diritto e il diritto della forza.
Certo, in Europa ed in Italia non siamo a questo punto, ma la “malattia” delle democrazie si manifesta comunque anche da noi , benché in forme diverse. Persino nell’ Unione Europea emergono preoccupanti fenomeni di una rappresentanza degenerata, non protetta dai necessari meccanismi di accountability. In alcuni stati europei, poi, la “democrazia”, anche facendo ricorso a prevaricanti leggi elettorali “maggioritarie”, cerca di limitare diritti essenziali e fondamentali ( libertà di stampa ecc.) e di alterare le garanzie dello Stato di diritto ( strumentalizzazione del potere giudiziario). In altri, è il caso dell’ Italia, una “democrazia” lontana anni luce dalla realtà del paese, ha da tempo difficoltà crescenti ad esprimere i bisogni reali della popolazione e a produrre maggioranze in grado di governare e affrontare i problemi veri della società, sempre più abbandonata a se stessa, ed alle poche strutture che mantengono in essere la “cura” delle persone, che competerebbe in primis allo Stato.
La distanza governo cittadini resta abissale. Quando non si ricorre alla modalità tutta italiana dei “governi tecnici” si hanno “governi politici” che però- nella democrazia dei followers– non si rivelano capaci di produrre visioni del futuro, né di progettare realisticamente i cambiamenti, governi sempre divisi, tra il condizionamento dei “sondaggi” che spingono i partiti a presentare programmi-civetta usa e getta, da buttar via il prima possibile una volta al governo e i “vincoli esterni”, non discutibili e non modificabili- così almeno ci assicurano-, che provengono da una governance europea, che è sempre sul punto di essere “riformata”, ma non lo è mai.
I governi “politici” si riducono così a “fotocopie” sbiadite dei governi “tecnici”, magari marcano la dfifferenza ed esprimono la propria “politicità” attraverso il perseguimento degli obiettivi identitari che non comportano costi economici immediati (law and order per la Destra diritti civili possibilmente divisivi per la Sinistra). Il crollo verticale della partecipazione popolare è di questa “fuga dalla realtà” dei politici una delle prove indiscutibili. Nessuno si affretta a partecipare alla vita pubblica ed alle assemblee quando la volontà politica è stata conformata in anticipo da altri. Ormai in Italia vota poco più di un elettore su due ( dal 90% di affluenza nel giugno 1946 si passa al 63% del settembre 2022). Può una democrazia esser ritenuta vitale anche quando si registrano questi fenomeni ?
Va detto che la democrazia, negli ultimi due millenni di storia, non ha mai goduto di “buona fama”. E c’è un motivo per questo. La democrazia è anche un problema, non è una soluzione sempre pronta per l’uso. Forse questo lo ignorano non solo alcuni “politici”, non solo i comuni cittadini, ma anche i migliori allievi dei nostri licei. Ignorano che il termine “democrazia” è sempre stato usato in una accezione negativa, dall’epoca di Platone fino alla rivoluzione americana del 1776. Noi ne abbiamo una percezione opposta solo perché abbiamo in mente soprattutto la democrazia che ha caratterizzato l’ Europa e una parte crescente del mondo nella seconda metà del XX secolo, soprattutto tra il 1945 ed il 1975, ed ha prodotto governi miti, pacifici, in grado di garantire una relativa giustizia sociale oltre che una forte crescita economica. Ma per due millenni la “democrazia” è rimasta quella descritta da Platone nel Libro VIII della Repubblica (lettura vivamente consigliata nei licei italiani secondo il programma di educazione civica del 1958, ministro on. Aldo Moro), cioè è rimasta il regime in cui la “forza” disordinata del “demos” si esprime in una libertà anarchica (licenza) quella in cui, secondo Platone, il padre ha paura del figlio, il figlio non rispetta più il padre, il maestro teme i suoi allievi e gli allievi disprezzano il maestro ( tempi di Platone o Italia 2022?). La democrazia è per Platone il governo “che non si dà alcun pensiero di quegli studi a cui bisogna attendere per prepararsi alla vita politica, ma onora chiunque per poco che si professi amico del popolo”(Platone, Repubblica, LibroVIII). Ancora una volta, tempi di Platone o Italia 2022?
Le cose sono cambiate solo con la fine del XVIII secolo. Fu nella Rivoluzione americana, prima ancora che in quella francese, che si scoprì che poteva anche esistere una democrazia come regime non degenerato, ma virtuoso, e poteva dunque verificarsi un rovesciamento radicale in positivo dell’idea di democrazia. Non si trattò però di una intuizione folgorante. Anche in America infatti si dovettero sperimentare all’inizio- e sia pure per un breve periodo, soprattutto dal 1777 al 1787, le degenerazioni classiche del sistema democratico, cui pose poi un argine la Costituzione federale. Bisognava infatti inventare una democrazia diversa che andasse oltre le forme della democrazia classica ed antica.
Noi in Italia, invece, una volta instaurata la Repubblica, abbiamo a lungo pensato che non vi fosse alcun problema con la democrazia e che la democrazia fosse una sorta di “Stato governato dagli angeli”. Così abbiamo pensato che bastasse incentivare la partecipazione dei cittadini all’atto elettorale, o allargare progressivamente l’area del suffragio, o anche garantire la difesa dei diritti sociali essenziali per avere una democrazia ben funzionante. Abbiamo visto solo i vantaggi della democrazia come forma di Stato, ma non i problemi della democrazia come forma di governo. La corruzione di una parte del sistema al tempo precedente Mani Pulite ci sembrava un fatto fisiologico, più che patologico. In realtà, anche un governo del popolo come un governo del re può divenire “dispotismo”, intendendo come tale la “democrazia” che ha un padrone, magari elettivo, quella forma di governo in cui si trattano gli uomini come se fossero cose o come se fossero numeri (rilevanti magari solo per la crescita del PIL) , e si fondano le decisioni sulla convenzione di una “emergenza” permanente (oggi potremmo scegliere ampiamente tra Covid, guerra, inflazione, debito pubblico ecc.) , come fanno i “selvaggi” della Louisiana descritti da Montesquieu nel capitolo XIII del Libro Quinto dello “Spirito delle leggi”, come i selvaggi cioè che tagliano gli alberi quando vogliono raccogliere la frutta. Vale a dire sacrificano e distruggono il futuro per sopravvivere nel presente, o tagliano i posti-letto necessari negli ospedali domani per far fronte ad una emergenza finanziaria del presente.
I problemi della democrazia nelle tredici colonie americane che, nel 1783, si erano liberate dal dominio inglese erano enormi. Il potere legislativo delle singole colonie, espressione spesso di farmer o artigiani indebitati, bloccava o rovesciava le sentenze dei tribunali a favore dei creditori. Oppure ancora, le Camere basse dei singoli stati adottavano le “paper money laws” le leggi di emissione di moneta cartacea, introducendo nei fatti un meccanismo di cancellazione dei debiti. Si acquistavano ad un prezzo inferiore titoli di credito utilizzabili dai debitori per pagare i creditori lucrando sulla differenza tra importo nominale( quello sufficiente per adempiere l’obbligazione) e quello reale. In questo modo, però, si violava il diritto di proprietà: il legislativo, non frenato da limiti, devastava dunque una sfera del diritto. La produzione legislativa era caotica: le leggi venivano modificate, rivedute, emendate, mantenute in uno stato di precarietà permanente.
Era questa la “tirannia del legislativo” o il, “dispotismo democratico” non la soluzione dei problemi, ma il nuovo male contro cui occorreva un rimedio. E’ ciò che può avvenire ancora oggi laddove è la massa a decidere, non il popolo dei cittadini. Giuseppe Dossetti lo aveva scritto chiaramente alla fine del Secondo conflitto mondiale, parlando di democrazia : “la massa è la nemica capitale della vera democrazia e del suo ideale di libertà e uguaglianza” ( Giuseppe Dossetti, Il problema della democrazia, luglio 1945, volantino inedito, Archivio Sereno Folloni)
Se questo è il problema della democrazia, allora, la via d’uscita non può essere certo la personalizzazione del potere, la presenza di un decisore centrale, di un Presidente della Repubblica- o un “Sindaco d’ Italia”- dotato di poteri straordinari e centralizzati, e capace di esprimere in modo chiaro, univoco e definito la voce diretta del popolo, secondo l’idea semplicistica “vox populi vox Dei”, cui molti si sono assuefatti grazie ai nuovi social che aiutano a confondere verità e verisimile e moltiplicano la faziosità e l’irrazionalità del cittadino comune. Ci sarebbe per questa via il pericolo di riconoscere in via istituzionale i vari Trump e Bolsonaro come i titolari, sia pure pro tempore, di questa “voce infallibile”. Un pericolo aggravato dalle tante banalità e stupidaggini da Bar dello Sport che “argomentano” oggi la soluzione presidenzialistica sulla presunta necessità di decidere in “tempo reale” e di avere il governo legittimo la sera stessa del voto. Così, il presidenzialismo oggi non solo sarebbe un modo di aggirare la complessità del reale, ma addirittura un modo di invertire le urgenze vere e attuali della vita pubblica.
Gli americani costituirono certamente un potere presidenziale, ma circondandolo di limiti e freni o contrappesi ed evitando, all’inizio, una sua elezione diretta. Ma i problemi della democrazia furono risolti ragionando su altro. Il cuore del problema discusso dai costituenti fu il problema della rappresentanza, come ben ha spiegato il costituzionalista Walter Berns ( AA.VV. How democratic is the Constitution?, Washington DC, 1980, pp. 59-78). I costituenti di Filadelfia si accorsero che ciò che non funzionava era proprio il carattere diretto della democrazia, la rispondenza diretta e immediata del mandatario ai suoi elettori. Coniugare democrazia e rappresentanza, questo elemento assente nella cultura civile dell’antichità, fu la grande acquisizione della modernità rivoluzionaria del XVIII secolo e dei costituenti americani.
Ci si accorse che il problema della ingovernabilità della democrazia era legato al carattere diretto e immediato che si attribuiva alla decisione popolare. La Camera bassa doveva, in un’ottica semplicistica, essere uno specchio del paese reale, una riproduzione miniaturizzata del popolo. Il “rappresentante” doveva “ri-presentare” la società, quindi per avere un ritratto perfetto della società, erano necessarie elezioni annuali, rotazione delle cariche, responsiveness diretta verso gli elettori, titolari di una sorta di mandato imperativo. Ma di qui nascevano i problemi.
Si pensò allora ad una rappresentanza diversa, non ad una rappresentanza come ri-produzione del popolo, ma come una sorta di corpo sociale distinto, una sorta di aristocrazia naturale che riusciva ad identificare gli interessi generali e permanenti, neutralizzando le fazioni e trasformando l’animosità in competizione e compromesso ragionevole tra interessi diversi.
Il principio maggioritario – una acquisizione del pensiero medioevale per cui la maior et sanior pars ha il diritto di decidere per tutti- trova così una legittimazione affidabile. La maggioranza che si esprime nelle assemblee elettive è infatti , una “maggioranza deliberativa” , diversa tanto dalla astratta volontà popolare dei francesi, quanto dalla pura e semplice maggioranza aritmetica che è espressione della somma degli interessi momentaneamente o localmente prevalenti, oppure è espressione rozza e passionale, conformista o sovversiva, della folla. Ma una simile “maggioranza deliberativa” poteva nascere solo se il sistema consentiva di “…affinare ed allargare la visione dell’opinione pubblica, attraverso la mediazione di un corpo scelto di cittadini, la cui provata saggezza può meglio discernere l’interesse effettivo del proprio paese” ( Il federalista, Saggio n. 10, ).
Il processo che noi sperimentiamo in Italia è quello invece di una progressiva erosione della democrazia rappresentativa, favorita dall’uso maldestro e deleterio della “democrazia diretta” referendaria, promosso soprattutto da parte radicale e, poi, anche conseguenza delle trasformazioni iper-maggioritarie ( Porcellum, Rosatellum e via dicendo…) dei sistemi elettorali, ibridati come se fossero OGM, solo per fabbricare maggioranze che dovevano essere stabili. Si è così, poco per volta, persa la cognizione che il Parlamento non è un ferrovecchio da buttare magari per essere sostituito da una democrazia telematica 2.0 , ma uno strumento raffinato che serve essenzialmente a garantire la responsabilità delle assemblee e che è funzionale ad alimentare, attraverso la dialettica delle posizioni, che poi è la “politica”, un pensiero complesso che eviti la semplificazione del pensiero binario, bianco e nero, per cui ogni scelta politica si configurerebbe sempre come una scelta tra due alternative, senza mediazioni possibili o auspicabili.
Si dimentica invece- una volta inebriati dal fascino della democrazia immediata e semplificante- la priorità assiologia che spetta alla democrazia rappresentativa rispetto a quella diretta.
“ Si pensi ad esempio al fattore responsabilità. E’ incontestabile che la responsabilità politica postuli la distinzione tra chi risponde e chi fa valere la responsabilità. Essa, pertanto, senza istanze rappresentative, non esiste , poiché solo tali istanze rendono possibile al corpo elettorale sanzionare con lo spostamento dei consensi le maggioranze politiche che non abbiamo soddisfatto le attese “ ( A. D’ Atena, Democrazia illiberale e democrazia diretta nell’era digitale, in Rivista AIC, 2/2019, p.7)
Non si può ritenere che le nuove tecnologie rendano obsoleta la rappresentanza e la politica. E’ vero invece che le nuove tecnologie tendono a disintermediare la relazione cittadini-rappresentanti, ma in realtà la vera rappresentanza nasce proprio per contrastare la disintermediazione del potere della folla. Per questo in Inghilterra ed in America il trustee model of representation rimpiazza il delegate model of representation che era invece il rappresentante “disintermediante” degli interessi immediati degli elettori mandatari. Con buona pace dei vecchi tifosi della abolizione del divieto di vincolo costituzionale di mandato ( art. 67 Costituzione).
La democrazia contemporanea 2.0 ha cioè bisogno crescente non di una personalizzazione del potere, anche nella forma presidenziale, ma, al contrario, di una solida mediazione rappresentativa, se essa vuol tenere in vita la sua anima politica, il suo fondamento dialogico ( contro lo slogan e il sofisma).
Vale la pena ricordare allora che l’ Italia, nel primo articolo della Costituzione, non si autodefinisce come UNA DEMOCRAZIA bensì come una REPUBBLICA DEMOCRATICA. Il sostantivo, ovvero la sostanza di base è la ”repubblica”, mentre la “democraticità” è soltanto la sua attribuzione. I padri costituenti ebbero ben chiari i pericoli potenziali costituiti da una “democrazia popolare” o da una “democrazia della massa”, la “pure democracy” o “popular democracy” degli Americani del XVIII secolo.
Repubblica e democrazia infatti si differenziano non soltanto perché esse designano rispettivamente una forma di governo ( repubblica) e una forma di stato ( democrazia), ma anche per altro. Nel termine “repubblica” c’è un elemento che completa il termine democrazia, inserendo l’idea del bene comune e della virtù civile, che invece non sono impliciti nella democrazia intesa come potere del popolo o della sua maggioranza. E’ la Repubblica non la democrazia che ha bisogno di un assetto costituzionale che garantisca separazione ed equilibrio tra i poteri. E’ la Repubblica, non la democrazia, che richiede l’adempimento dei doveri essenziali per garantire i diritti sociali e la centralità della persona , mentre di solito alla democrazia associamo soltanto i diritti.
Forse non è un caso che in Italia un vero partito repubblicano sia sempre stato minoritario e sia poi scomparso così rapidamente e non è un caso che ad un “partito democratico” si sia riservato (impropriamente) quel ruolo di tutela dei valori sociali e costituzionali, un tempo bandiera dei comunisti, e soprattutto del cattolicesimo democratico.
Il fatto è che la democrazia del XXI secolo dovrebbe tornare ad essere una “democrazia repubblicana” che valorizzi la rappresentanza (magari con un proporzionalismo alla tedesca bilanciato da una sfiducia costruttiva per la stabilità dei governi) e che sia anche una cultura civile diffusa. E che parta, prima di tutto, dalla cura delle parole e della realtà effettuale da esse veicolata, in un’epoca in cui, come e ancor più che nel romanzo di Orwell, la guerra è diventata pace (o condicio sine qua non per averla, per cui vale l’equazione più armi all’aggredito pace più rapida), la schiavitù è divenuta libertà (come quella di mercato e di concorrenza, di cui “godono” i riders), l’ignoranza è diventata forza (come il potere degli influencer su social media).
Il presidenzialismo inteso come potere personalizzato, efficiente, rapido e immediato ci avvicinerebbe probabilmente alle esperienze peggiori dell’ America latina, piuttosto che a quella degli Stati Uniti. Ed allargherebbe l’abisso tra Paese reale e Paese legale.
Umberto Baldocchi