La nascita del governo Draghi è stata salutata da molti osservatori come un momento di pausa dalle controversie politiche esasperate delle fasi precedenti. Tale da consentire che ciascun partito si ritirasse in un bacino di carenaggio e provvedesse a ripulire la carena dalle troppe incrostazioni accumulate nella sua lunga navigazione e, magari, applicasse alla propria plancia di comando le strumentazioni, adatte a mantenere la rotta, tecnologicamente più avanzate. In effetti nei maggiori partiti che concorrono alla formazione della maggioranza vi sono, sia pure in diverso modo, cantieri aperti.

Si registra, poi, da parte loro, una sorta di addensamento al centro dello schieramento politico, funzionale, peraltro, alla riedizione, sia pure in forme nuove, del bipolarismo maggioritario che ha fin qui prodotto un sostanziale impoverimento della dialettica democratica, generando, piuttosto, quella condizione di reciproca delegittimazione tra le parti in gioco, che ha sostanzialmente dominato l’intero decorso della cosiddetta “seconda repubblica”.

Ci si è illusi che l’ “alternanza”, garantita forzosamente da leggi elettorali maggioritarie, avrebbe finalmente sanato la cosiddetta “democrazia incompiuta”, approdando a condizioni ideali di stabilizzazione della funzione di governo e di semplificazione del quadro politico che sono state, al contrario, largamente smentite, come dimostra la numerosità degli esecutivi che si sono via via succeduti – in più occasioni a prescindere da una puntuale legittimazione elettorale – le brusche inversioni  di rotta da uno schieramento all’altro in costanza di legislatura, nonché la stessa proliferazione dei partiti che sono nati l’uno dall’altro come in un insensato gioco di matriosche.

Bisogna prendere atto, anche nel campo della politica, di una legge generale, applicabile ad ogni contesto in cui si manifesti una condizione di complessità, cioè una tale numerosità di fattori coincidenti ed una così ricca articolazione di rapporti tra livelli ed elementi differenziati del quadro, da rendere pressoché indecifrabile  il tutto.

E’ completamente fuori luogo pensare che si possa padroneggiare un tale contesto “semplificandolo” ed intendendo tale operazione come una robusta potatura, che, riducendo la questione al torsolo “, dovrebbe permettere di coglierne l’essenza, sennonché la sfronda talmente da renderla irriconoscibile ed insignificante. L’unica vera semplificazione, anche in politica, la si ottiene con un paziente lavoro di ricognizione di una realtà che va ripercorsa nei suoi meandri. I quali, a prima vista, sembrano un labirinto indecifrabile, ma studiati da vicino finiscono per mostrare delle regolarità che, via via consentono, come succede in campo scientifico, di portare alla luce una legge che, al momento opportuno, permette di svelare e governare l’arcano senza snaturarlo o tradirlo.

Ora – per di più dopo il giro di vite imposto alla rappresentanza con la riduzione del numero dei parlamentari – pare che ci vogliano  proporre, un’altra volta, la stessa pozione. Paradossalmente, in un quadro che, almeno nominalmente, dovrebbe esaltare l’alternatività delle parti, si registra, al contrario, un’omologazione al ribasso del modo d’essere dei maggiori partiti che ne segna una pericolosa e simmetrica involuzione.

Dovrebbe essere ovvio, addirittura tautologico, che una forza politica possa concorrere alla vita democratica del Paese, nella misura in cui viva ed esperimenti  la stessa condizione di confronto aperto e libero nel suo stesso ambito. Non ci sono più partiti che celebrino un congresso, fino a prova contraria il classico approdo cui giunge un vasto confronto interno e momento focale in cui una forza organizzata assume un preciso orientamento politico e lo fa “coram populo”, assumendo una puntuale responsabilità nei confronti del Paese, non solo a fronte dei propri associati. E senza congressi, i partiti sono ancora tali, cioè, anzitutto, strumenti di efficace mediazione per un concorso sostanziale dei cittadini alla vita democratica del Paese oppure si riducono a meri  aggregati elettorali e di potere?

Lasciamo pur perdere Forza Italia che non ha mai tenuto un congresso da quando esiste e neppure oggi, in via di progressivo e costante sfarinamento, non trova il coraggio di guardarsi in faccia, mestamente rassegnata a dissolversi giù per la china declinante del suo leader, convinta di doversi abbandonare all’ineluttabile destino inscritto fin nelle sue stesse origini. 

La Lega, al contrario, si è sì affrancata dal fondatore, ma lo ha fatto – come, del resto, nel successivo passaggio da Maroni a Salvini – attraverso processi interni a mo’ di faida, piuttosto che di confronto. Come mostra la cronaca delle ultime settimane, si tratta temi di capitale rilievo per qualunque partito, sia o meno europeista, come, appunto, l’adesione o meno ad uno spirito europeo autentico, con una disinvoltura preoccupante e perfino pericolosa per la complessiva immagine che il Paese offre di sé agli altri partner europei. Sposa l’Europa per un formale assenso alla linea del governo e, dopo una manciata di giorni, torna a menare la danza dei sovranisti, tra l’altro rispondendo in maniera sfrontata all’inopinato invito di Letta perché entrasse a far parte del PPE. Il tutto, ovviamente, come nel passaggio dalla pretesa “secessionista” alla presunta funzione nazionale del partito, sempre sulla base di un semplice diktat del capo di turno.

In quanto al Movimento 5 Stelle è perfino superfluo commentare lo stato confusionale che regna al suo interno. Hanno contraddetto gran parte dei presupposti di contenuto e di metodo su cui sono nati e soprattutto si sono rapidamente omologati ai costumi che deprecavano nella cosiddetta “casta”, fino agli indecorosi tormenti che vivono oggi circa la querelle del secondo mandato. Si sono affidati a Conte per una rigenerazione che, disposta autoritariamente  dall’ Elevato, mostra l’insanabile contraddizione tra la logica che presiede la vita interna del Movimento e la funzione di rigenerazione etica e democratica  che si attribuivano, prima di cedere alla suggestione degli ozii romani.

Né si può dire che, in quanto a modalità di funzionamento, il PD stia meglio. Passato da un segretario all’altro senza che a ciò mai corrispondesse una approfondita analisi del dato politico e della stessa fisionomia ideale del partito, senza la capacità di un serio ripensamento dell’ originaria ubriacatura maggioritaria che, solo oggi la palese evidenza dei fatti costringe a mettere da parte, dopo essere stato sbertucciato dal suo stesso segretario, ha impalmato una degnissima persona come Enrico Letta, senza darsi pena di un attimo di riflessione autocritica. Del resto, nell’intera storia del PD le primarie non hanno mai avuto una chiara e netta fisionomia ed, anziché definire una stabile ed organica nuova modalità di democrazia interna, ne hanno, al contrario, rappresentato un incerto surrogato, addirittura una maniera di sfuggire a quel franco e spassionato confronto interno che è sempre mancato e non ha mai concorso a sviluppare quell’amalgama di diverse culture che pur era nei suoi auspici.

Non a caso, del resto, anche nel PD, come pare stia succedendo in ordine ad un tema dirimente come la legge elettorale, basta cambiare il segretario per rovesciare da un giorno all’altro un indirizzo che pareva consolidato. Non per una mera opzione di parte, ma come necessaria e meditata forma di compensazione ad un disequilibrio della rappresentanza, imposto dalla riduzione del numero dei parlamentari.

Insomma, c’è una patologia dei partiti che andrebbe indagata a fondo e necessita di essere compresa se vogliamo ricondurre il sistema politico, nel suo complesso, ad una logica di effettiva democrazia.

Domenico Galbiati

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