E’ bastato poco per vedere salire il dollaro americano nello spazio di pochi giorni. Lo si deve alle decisioni di Jerome Powell, il potente capo della Federal Reserve che pure ha agito con prudenza: i tassi di interesse americani si sono mossi ma lentamente e i mercati sono rimasti dubbiosi, credendo in una ripresa a breve termine ma non ancora in un forte rilancio strutturale. Lo dimostrano i rendimenti dei titoli del Tesoro americano a lungo termine che sono rimasti pressoché invariati mentre quelli a cinque anni sono cresciuti.

Per sostenere la crescita in corso la banca centrale americana continua ad immettere sul mercato 1200 miliardi di dollari al mese e quella europea non è da meno prevedendo acquisti di titoli sul mercato per il 2022 per almeno 700 miliardi di euro.

E’ normale che interventi di politica monetaria espansiva così massicci pongano le premesse per generare tensioni inflazionistiche ma per ora le preoccupazioni sembrano originate più dagli aumenti delle materie prime, petrolio ed acciaio in particolare, che sono avvertiti tutti i giorni sia dalle quotazioni internazionali che dall’artigiano brianzolo e che rappresentano la vera incognita. Se questi aumenti si rivelassero durevoli l’inflazione potrebbe cominciare a preoccupare, ma se la fiammata dovesse attenuarsi non si dovrebbero superare nel breve termine i parametri ritenuti virtuosi: tra il due e il tre per cento secondo i punti di vista ritenuti ancora compatibili con la stabilità.

Le ragioni degli aumenti dei prezzi, secondo il capo economista della BCE Philip Lane, è dovuto ad “uno squilibrio imprevisto fra domanda e offerta” (come imprevista e’ stata la pandemia) ed è facile considerare che gli aumenti della domanda seguono sempre la ripresa della produzione dopo un lock-down e con le imprese impegnate a ricostituire le scorte. Ecco perchè gli aumenti dei prezzi non dovrebbero avere effetti permanenti, come ha ritenuto recentemente anche il professor Alberto Quadrio Curzio in una pensosa analisi.

Né si può dimenticare che la disoccupazione è ancora troppo alta e i salari non evidenziano certo tendenze tali da far rilevare tensioni inflazionistiche.

Resta però, dietro l’angolo della ripresa in corso, il rischio di un contagio nei tassi di interesse europei se quelli americani dovessero tendere più decisamente al rialzo quando la Federal Reserve avvierà la riduzione graduale della immissione di liquidità nel sistema.

E sempre dietro l’anglo non possiamo dimenticare che vi è anche il ritorno del “patto di stabilità” dell’Unione, previsto non prima del 2023, ma che già inquieta i tedeschi e i cosidetti Paesi frugali del nord che spingono per riassumerlo.

Anche se riformato, come si auspica, il patto di stabilità imporrà di ridurre il deficit di bilancio e riportare il debito pubblico sotto controllo.

Le previsioni economiche del nostro governo prevedono il ritorno del deficit sotto il tre per cento nel 2025 e dallo stesso anno l’avvio di un piano di rientro del debito anche se ben lontano dal limite previsto dal patto (sessanta per cento del PIL, ora siamo a più del doppio). L’occasione per non continuare ad essere il Paese che ogni anno promette solennemente di ridurre il debito, per poi disattendere la promessa e aumentarlo, questa volta c’è.  Ed è il Recovery Fund che, concentrando la spesa sugli investimenti, può generare crescita e quindi ridurre il debito.

Tutto dipenderà da un impiego corretto dei fondi, dalle riforme e quindi ancora una volta dalla politica.

Guido Puccio

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