Eccomi tornare ad occuparmi di questioni legate al mondo geopolitico-militare che, piaccia o non piaccia, è ancora un aspetto fondamentale degli stati nazionali del primo scorcio di XXI secolo (oserei dire fortunatamente) soprattutto per l’aspetto diplomatico e industriale piuttosto che meramente guerresco.
Consideriamo dunque la piega dell’evoluzione geostrategica del nostro paese sviluppatasi a seguito della nota guerra in Ucraina nonché di questo avvio del governo Meloni che, penso di poter affermare, non si stia affatto muovendo malaccio.
Innanzitutto osserviamo la ritrovata vena atlantista del nostro paese che, zitto zitto, si è prontamente riavvicinato a Washington dimostrandosi un fiero sostenitore dell’Ucraina prima con Draghi e oggi con Meloni che ha ulteriormente rafforzato l’impegno (significativi gli invii di equipaggiamenti alle forze di Kiev su tutti i sistemi contraerei e le decine di semoventi d’artiglieria).
L’avvicinamento con Washington sembra portare a un duplice vantaggio: in primo luogo pare che Biden abbia deciso di eleggere il nostro paese quale perno del fronte mediterraneo della NATO, posizione che ci consentirebbe margini di manovra nel MENA (Middle East – North Africa) con interessanti prospettive anche per discorsi di più largo respiro. No, non sto vagheggiando di quarte sponde, ineluttabili destini o miraggi coloniali bensì di essere legittimati ad agire come capofila o, quantomeno, ad avere margini di manovra in questioni quali gli indirizzi di cooperazione, assi energetici e partenariati in materia di sviluppo, agricoltura e immigrazione ossia tematiche di estremo interesse per chiunque voglia fare Politica e non amministrazione contabile.
Ovviamente i nostri peggiori rivali in tutto ciò sono i nostri alleati Anglo-Francesi che hanno “brillantemente” gestito la questione libica in passato per poi aprire le porte, come conseguenza accidentale, di metà nord Africa agli uomini di Mosca. Solitamente mercenari di Prigozhin.
Per questo motivo essere nella manica di Washington non è poi una brutta idea: in primo luogo serve a ripararci dalle funeste iniziative di Londra e Parigi mentre in prospettiva potrebbe esserci utile in vista delle sfide mediterranee del prossimo decennio che, se non cambia qualcosa, ci porteranno in rotta di collisione con Turchia e Algeria. I primi non fanno mistero di voler ripristinare la gloria del fu Impero Ottomano e stanno, oggettivamente, avanzando a grandi passi verso il loro obiettivo di tornare ad essere una (super)potenza regionale: sono attivi (o provano ad esserlo) in ogni discorso che vede coinvolti stati che furono sotto la Sublime Porta o che si affaccino sul Golfo di Aden e dintorni (Sudan, Eritrea, Somalia, Etiopia, Chad). Per rafforzare le loro opzioni di manovra gli uomini di Erdogan stanno sviluppando un interessante comparto bellico che li sta spingendo verso la creazione di un’efficiente industria della difesa in grado di rifornirli dei più moderni sistemi d’arma: dapprima blindati e veicoli MRAP poi droni e navi e infine, notizia di questi mesi, MBT (carri armati) che avranno un motore coreano che sarà prodotto/assemblato in Turchia (step precedente allo sviluppo autonomo di un gruppo motopropulsore). La direzione di queste scelte è evidente: dotarsi di uno strumento bellico autonomo che consenta ad Ankara libertà di manovra e che non sia dipendente da UE e USA per restare efficiente. In soldoni significa avere la possibilità di scontrarsi, perlomeno diplomaticamente, anche con gli alleati della NATO in questioni percepite di primaria importanza come: Cipro, Giacimenti mediterranei, Questione Egea, Questione Azero-Armena, Egemonia su SIRAQ e Kurdistan e Libia. Su almeno tre di questi argomenti gli inevitabili avversari non possono che essere gli europei e, in particolare Italia e Grecia. Ogni considerazione sulla secolare vicinanza Turco-Tedesca nonché ogni riflessione sul peso della minoranza turca nelle questioni teutoniche e i danni riversatisi sul mediterraneo europeo per colpa del rigorismo tedesco li lascio per futuri approfondimenti.
L’altro paese con cui, se non cambiano le cose, dovremo fare i conti è l’Algeria. Lo stato nordafricano ad oggi è un ottimo partner commerciale che ha permesso a Draghi di far fronte alla mancanza di gas russo. Se ciò è un bene la piega politica di quel paese è un male. L’Algeria da anni insiste ad interpretare la convenzione di Montego Bay a suo vantaggio ritenendo che le acque di pertinenza algerine arrivino fino a 12 miglia dalla Sardegna. Se finora l’affermazione è stata velleitaria la pioggia di soldi che deriva allo stato nordafricano dall’uscita di scena del gas russo dal mercato europeo rafforza queste pretese. Pretese che si consolidano anche perché l’unico rivale degli algerini in nord-Africa è il Marocco a est si è aperto da ormai un decennio il buco nero della Libia post Gheddafi e la Tunisia post primavere arabe non sembra godere di buona salute. Privati di rivali a Est gli Algerini, forti anche di una solida alleanza con la Russia, si stanno rafforzando e la retorica nazionalista ampiamente diffusa non lascia presagire buone nuove per il futuro.
Ovviamente, da parte nostra, sarebbe auspicabile gestire la questione mediterranea con l’Algeria sulla scorta di quanto abbiamo già fatto con la Grecia ma la disponibilità della controparte ad oggi latita. Inoltre se il futuro sarà l’elettrico (una sesquipedale scemenza da un punto di vista meramente geopolitico e in altra sede dirò il perché) diventa fondamentale l’accesso ai giacimenti di Uranio perché, salvo colpi di scena sulle tecnologie di Fusione, immaginare l’elettrificazione di trasporti e riscaldamento senza centrali a fissione nucleare è pura utopia. I suddetti giacimenti abbondano nella fascia subsahariana (Niger, Chad, Repubblica Centrafricana, Mali) che, guarda caso, è contesa già da un quindicennio e ad oggi vede i Francesi in ritirata, i Russi in avanzata assieme ai Cinesi e l’occidente aggrappato alla missione in Niger che è a guida italiana. Evidentemente l’Algeria non intenderà stare a guardare (complici i già citati buoni rapporti con la Russia) e quindi non appare certo improbabile un confronto con loro anche in questo spazio. Ovviamente potremmo obiettare che questa corsa all’or.. pardon uranio non è proprio bellissima e dovremmo starne fuori. Il che può essere vero a condizione però di accettare di restare al palo in campo energetico e salutare l’attuale livello di benessere o rinunciare ai sogni a zero emissioni. Alternativamente possiamo lavorare affinché il nostro paese proponga un modello virtuoso di uso (e non sfruttamento) delle risorse che consenta un’Europa più ecologica e che, al contempo, arricchisca anche i popoli africani affrancandoli dalla loro disastrosa situazione così da mitigare al contempo anche la questione migratoria perché si andrebbero a sanarne le cause. Ovviamente tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e una buona dose di visionarietà ma, dopotutto, Mattei fu un visionario che cambiò il mondo e quantomeno il governo, battezzando il suo piano per l’Africa con questo nome, si propone di entrare in quella scia. Noi di INSIEME dobbiamo lavorare affinché gli indirizzi del nostro paese siano davvero visionari e rivoluzionari e che i “piani Mattei” onorino davvero la memoria dell’uomo di cui portano il nome.
Mattia Molteni