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Guardando alla situazione attuale non possiamo non notare che la prima difficoltà è data dalla composizione etnico-culturale degli stranieri presenti nel Belpaese che, nessuno ci riflette, è quanto di più eterogeneo ci possa essere. Pensiamoci: alcuni “non italiani” condividono con noi un lungo cammino storico, alle volte la religione e provengono dalla stessa matrice culturale (balcanici, ucraini, rumeni…) altri invece hanno alle spalle una provenienza cultural-religiosa completamente diversa (Cinesi, Pakistani, Africani subsahariani) altri ancora si collocano in un punto intermedio rispetto alle precedenti categorie (Nord africani, Turchi, Cattolici di altri continenti). Insomma parlare di stranieri in termini generici è non solo inutile ma, addirittura, controproducente perché ci induce a pensare a una realtà monolitica quando invece abbiamo più a che fare con un caleidoscopio di genti, culture e religioni.

Il solo considerare la questione “stranieri” in maniera frammentata apre alla comprensione di fenomeni quali la diversa velocità di integrazione, la percezione popolare che alcuni siano stranieri pericolosi e altri no e la differenziazione in vie e quartieri etnici nonché all’intuire perché, talvolta sorgono tensioni anche tra differenti popolazioni alloctone soprattutto quando vengono forzate alla convivenza da sistemi che non differenziano un cristiano filippino da un pakistano islamico o che equiparano un cinese a un ucraino. Ciascuno di questi immigrati ha diritto all’accoglienza e all’integrazione (ovviamente se le desidera) che non possono e non devono essere modelli preconfezionati e uguali per tutti. Una banalità illuminante: Se i panini Mc Donald si declinano in diverse sfumature e varianti nei vari paesi in cui è presente la nota catena perché le politiche di accoglienza e le regole di cittadinanza non devono adattarsi alle persone?

Se dunque abbiamo accennato alle oggettive differenze tra stranieri non possiamo tacere le altrettanto oggettive eterogeneità delle popolazioni riceventi; soprattutto in un paese regionalizzato e campanilistico come il nostro. Ogni regione italiana ha le sue caratteristiche culturali peculiari, che possono essere anche molto marcate, e che inevitabilmente si riflettono nella diversa affinità. Lavorando nella scuola mi è spesso capitato sentire professori “di giù” dichiarare che si trovano più a loro agio con le modalità espressive dei nordafricani piuttosto che con quelle degli slavi o dei rumeni. Viceversa molti professori del nord manifestavano l’opposta tendenza. Tutto ciò può esser visto superficialmente in maniera negativa come il solito campanilismo nord sud o come una forma di malcelato razzismo. Io credo invece che questo dato possa essere interpretato, più intelligentemente, come una manifestazione di quell’unicità culturale che è la vera grande ricchezza dell’Italia e che, se valorizzata a dovere, consentirebbe al nostro paese di essere una terra di accoglienza e di dialogo universale, il naturale punto di incontro e mediazione in cui tutti possono convergere. Sarà un caso ma l’epicentro dell’organizzazione umana più universalistica e duratura sta a Roma che, come tutti sanno, è stata anche la capitale fondatrice del più grande impero multietnico della storia.

Come tutti sappiamo la situazione di grande eterogeneità regionale e provinciale in Italia non è confinata ai soli aspetti culturali ma riguarda anche aspetti assai più pragmatici: la disponibilità economica, la presenza di servizi e infrastrutture nonché le aspettative di sviluppo. In termini assai concreti per pianificare politiche di ricezione di immigrati è necessario guardare alle effettive possibilità di accoglienza di un territorio. Un posto sovraffollato è meno ricettivo di uno spopolato mentre un territorio in “sofferenza economica” è oggettivamente più inospitale di uno che conosce una forte crescita economica e via discorrendo. Inevitabilmente qualora lo straniero arrivi in un territorio scosso da crisi economica verrà probabilmente visto come un pericoloso invasore che “ruba il lavoro” dai residenti, già incattiviti dalla crisi e dall’impoverimento. Diversamente in un posto in cui i salari crescono e i posti di lavoro abbondano l’arrivo di “facce nuove” non desta poi tutte queste preoccupazioni. A titolo esemplificativo possiamo comparare l’accoglienza ricevuta dai migranti Turchi che arrivarono nel comasco e nell’alta Lombardia nei primi anni ’90 e paragonarlo a quanto capitò con l’ondata migratoria dei nordafricani nei primi anni 2000.

Guardando all’arrivo dei migranti turchi non troviamo l’insorgenza di particolari fenomeni di avversione o ostilità: la crescita era solida, il benessere diffuso e l’arrivo di queste persone non creò grossi scossoni. A distanza di 10-15 anni il medesimo territorio viveva l’arrivo dei nordafricani con tutt’altro spirito e, non a caso, la Lega iniziava la sua transizione da partito “anti-terroni” a partito “anti-stranieri”. In quindici anni non possiamo ipotizzare un cambiamento significativo della cultura e della composizione della popolazione residente nell’alta Lombardia e anche le differenze culturali che intercorrevano tra autoctoni e nuovi arrivati non erano poi così diverse rispetto a quanto avvenuto con i Turchi. Cos’era dunque cambiato? Cambiava la congiuntura economica e politica mondiale: L’11 settembre si era appena materializzato, l’occidente entrava in guerra con il terrorismo, e, forse, parzialmente anche col mondo musulmano. L’Italia viveva una battuta d’arresto nella sua crescita economica complice la transazione Lira-Euro (spiegata male e gestita peggio dai nostri politici) e la globalizzazione faceva sentire i suoi effetti con i produttori cinesi che iniziavano a spazzare via le aziende italiane. Ricordo soltanto che nel territorio analizzato veniva praticamente cancellata l’esistenza del settore tessile e serico che per oltre un secolo ne aveva caratterizzato il distretto industriale e relativo indotto. Non sorprende quindi che, a parità di condizioni legislative e culturali, l’esito delle migrazioni abbia prodotto esiti così diversi

Alla luce di quanto esposto appare evidente che, nella riuscita di una buona convivenza prima e di una effettiva integrazione poi, entrino in gioco molteplici fattori e condizioni che richiedono necessariamente di pensare a processi di accoglienza articolati e flessibili così da poterli adattare alle diverse esigenze che potranno via via manifestarsi tanto da parte degli ospitanti quanto da parte degli ospitati.

Immaginare di forzare l’integrazione è stupido: se si “converte” a forza il migrante alla nuova cultura si otterrà per reazione una sua radicalizzazione e una sua auto-segregazione in senso difensivo di ciò che ritiene essere la sua legittima identità. Viceversa imporre un’integrazione forzata agli autoctoni costringendoli ad assimilare “a casa loro” schemi di pensiero e tradizioni aliene alla propria cultura li porterà a radicalizzarsi nell’intolleranza e a fare quadrato contro il pericoloso invasore. In questi anni, in Europa, anziché adottare un approccio combinato al problema considerando le esigenze di cui sopra si è tentato di perseguire parallelamente queste due intelligenti vie di integrazione e i tragici risultati sono sotto gli occhi di tutti: da un lato ampie periferie e ghetti che sfuggono ad ogni controllo (modello Banlieu) dall’altro una rapida e duratura crescita nelle popolazioni locali di partiti e movimenti sempre più marcatamente xenofobi, intolleranti ed identitaristi che, non a caso, fanno il pieno di voti nelle periferie e nelle fasce di popolazione più deboli ossia proprio laddove si trovano le persone che più debbono convivere col fenomeno migratorio.

Per questo motivo penso che, come INSIEME, sia nostro dovere procedere a considerare l’ipotesi di una proposta di legge sulla cittadinanza articolata su più livelli che possa risolvere sì i problemi agli stranieri ma che possa, al contempo, garantire e tranquillizzare gli italiani sul fatto che non ci saranno sconvolgimenti nel loro stato e nel loro modo di vivere. Questa gradualità nel cambiamento la dobbiamo anche al nostro Stato che non è stato pensato immaginando di dover accogliere grossi flussi migratori e la cui struttura democratica è comunque giovane. Immettere milioni di nuovi votanti, spesso privi di cultura democratica e di una cultura laica che rende naturale concepire come distinte la sfera politica da quella religiosa può essere alquanto controproducente. Per questo motivo credo che sia giusto immaginare la cittadinanza non più come qualcosa assente o presente ma come il traguardo ultimo di un percorso articolato che consente anche fermate intermedie, esattamente come avviene con i percorsi scolastici dove ciascuno può scegliere se giungere alla laurea, limitarsi alla maturità o seguire invece percorsi professionalizzanti.

Ecco dunque la mia proposta per creare una base da cui sviluppare una proposta di legge davvero innovativa e rivoluzionaria che io immagino articolata sui seguenti livelli:

  • Il primo passo verso la stabilizzazione e l’integrazione degli stranieri deve essere di facile accesso e deve garantire all’immigrato la possibilità di una residenza stabile e sicura per sé e per i suoi congiunti stretti nonché la possibilità di poter lavorare e dedicarsi all’impresa oltre, ma è già così, l’accesso ai servizi di istruzione e del SSN. Idealmente questo permesso di soggiorno vitalizio deve essere facilmente e rapidamente ottenibile e dovrebbe essere ereditario.
  • Il secondo livello di avvicinamento alla cittadinanza dovrebbe essere un ampliamento del livello precedente e dovrebbe servire ad avvicinare lo straniero agli usi e costumi italiani e, se non vi è abituato, alle pratiche democratiche. Per accedere a questo livello credo sia indispensabile una scolarizzazione che preveda la conoscenza della lingua italiana, almeno a un livello b2, nonché della nostra cultura e delle nostre tradizioni che devono essere, ovviamente, accettate. A queste condizioni è quindi possibile concedere la possibilità che lo straniero possa partecipare marginalmente alla vita politica consentendo, per esempio la partecipazione alle elezioni comunali e prevedendo, magari, la possibilità di creare dei rappresenti-osservatori presso i livelli politici più “alti”. Immagino la figura di questi rappresentanti permanenti come figure di intermediazione che porterebbero in parlamento e nei consigli regionali proposte e suggerimenti non vincolanti. Questo assolverebbe al duplice scopo di dare più voce ai residenti stranieri senza sconvolgere gli equilibri politici esistenti e, al contempo, consentirebbe agli stranieri una maggior familiarizzazione con le dinamiche democratiche nonché con il nostro ordinamento politico. Ovviamente questi “osservatori” immagino che dovrebbero essere esclusivo appannaggio di chi è in possesso di questo permesso di soggiorno aumentato.
  • Il terzo livello, ossia la cittadinanza tout-court, dovrebbe essere concessa solo dopo aver percorso le tappe precedenti e, logicamente, in presenza di tutti i prerequisiti quali un’ottima conoscenza della lingua e della cultura italiana nonché un’accettazione della stessa. A mio avviso la presenza dei due livelli precedenti oltre a consentire un avvicinamento graduale consente anche a chi, legittimamente non si sente italiano la possibilità di vivere e lavorare in Italia senza dover per forza prendere la cittadinanza per meri scopi utilitaristici poiché questi obiettivi sarebbero già soddisfatti con i primi livelli di questo ipotetico percorso lasciando così l’accesso alla cittadinanza solo a chi si sente italiano e vuole davvero essere parte del nostro popolo e della nostra storia.

Mattia Molteni

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