La coesione sociale è, indubbiamente, messa continuamente in discussione dall’aumento della disuguaglianza sociale.

Una disuguaglianza sociale elevata, come l’attuale, può essere accettata socialmente e politicamente solo  se conduce a redditi più elevati per i gruppi sociali più deboli. La redistribuzione dei redditi dovrebbe essere sufficiente ed efficiente; cioè, sufficiente a garantire ai poveri un livello di reddito che consenta una vita dignitosa in linea con i consumi della società. Deve essere efficiente; cioè, l’economia deve essere capace di produrre tassi di sviluppo in crescita continua.

Specificatamente, viviamo una fase che ha al centro  cambiamenti tecnologici straordinari: hanno una natura orizzontale, attraversano, cioè, tutti i settori merceologici, come è, ad esempio, l’intelligenza artificiale. Questo progresso condiziona fortemente la crescita economica, nonché l’eventuale conseguente riduzione delle disuguaglianze.

L’attuale scenario tecnologico è sufficientemente negativo per l’ Italia, che presenta un rapporto tra spesa complessiva in Ricerca & Sviluppo e Pil pari all’1,4°%, nel 2023. Di contro, per gli Usa il rapporto è uguale a 3,4%; per l’UE pari a 2,3%.

Il gap tecnologico italiano, dunque, è elevato, ed è la causa principale del divario di produttività esistente tra il sistema produttivo italiano e i suoi competitors. Infatti, oggi,  più che in passato, la crescita economica dipende soprattutto dall’impiego di tecnologie d’avanguardia. Una carenza in questo  campo rende debole non solo il capitale, ma anche il lavoro per la conseguente scarsità di capitali destinati ad investimenti in risorse umane. Ne consegue che il ritardo tecnologico, e quindi produttivo, dell’economia italiana rende più difficile la riduzione delle disuguaglianze.

Inoltre, il prossimo restringimento del mercato Usa per effetto dell’annunciata introduzione dei dazi sulle merci importate, nonché la conseguente regionalizzazione delle catene del valore, rendono ancora più critica nel  mondo del lavoro la realizzazione del binomio “sufficiente-efficiente” nella redistribuzione dei redditi.

In un contesto, quindi, come quello analizzato, possono, nei prossimi mesi, entrare in crisi gli equilibri sociali. Per cui, senza coesione sociale, il conflitto tra lavoro e capitale produce danni reciproci, estremizzando gli interessi dell’una e dell’altra parte. Tenere presente il bene di tutti, invece, non significa negare il diritto di sciopero ed il ruolo rivendicativo del sindacato. Anzi, la conflittualità può diventare un’energia creativa, che  fa emergere le aree di crisi e che può fare  dei contendenti dei soggetti protagonisti di un nuovo statuto del lavoro e dell’impresa sociale.

Diventa sempre più urgente, alla luce di quanto esaminato, il comune concorso alla definizione di una politica industriale competitiva a livello globale, e capace di riequilibrare i rapporti economici tra i ceti all’insegna della giustizia sociale.

A tutte le parti in gioco spetta convergere nel ritenere inadeguato il modello neoliberista che ha governato l’odierna economia mondiale, producendo diseguaglianze inaccettabili. Questo capitalismo, a dispetto del profilo industriale, ha prodotto intollerabili ingiustizie nella redistribuzione della ricchezza e ha gestito gli incrementi di produttività, consentiti dalla innovazione tecnologica e dalla globalizzazione, esclusivamente in funzione del profitto.

È il momento di richiedere politiche governative, tendenti alla piena occupazione, in materia di: sicurezza sul lavoro, valorizzazione della professionalità, formazione-educazione, sostegno al lavoro femminile, retribuzioni di livello europeo.

È il momento di un nuovo profilo sociale dell’impresa. Per cui, in un quadro di rinnovata coesione sociale, va riconosciuta ai lavoratori dipendenti la facoltà di partecipare, nelle sedi opportune, alla definizione delle linee strategiche dell’evoluzione del mondo vitale.

Roberto Pertile

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