Gli eventi delle ultime settimane hanno riportato al centro del dibattito internazionale la minaccia rappresentata dal regime iraniano. Gli attacchi congiunti di Stati Uniti e Israele contro i siti nucleari e militari dell’Iran non sono stati solo un atto di forza, ma l’espressione di una strategia difensiva estrema, maturata dopo anni di provocazioni, minacce e destabilizzazione.
Di fronte a un regime che ha proclamato la distruzione dello Stato d’Israele come obiettivo ultimo della propria ideologia teocratica, è difficile non intravedere nel conflitto attuale un parallelo storico con la guerra tra Roma e Cartagine. Come Roma temeva Cartagine e Annibale, che avevano invaso l’Italia e messo a ferro e fuoco il cuore della Repubblica, così Israele e l’Occidente percepiscono oggi il pericolo esistenziale rappresentato da un Iran nucleare. Il paragone con Scipione l’Africano che, per porre fine alla minaccia cartaginese, portò la guerra direttamente in Africa e sconfisse definitivamente Annibale a Zama, non appare fuori luogo. Quando una civiltà è posta di fronte alla prospettiva della propria dissoluzione, non può che rispondere con la forza e con la determinazione di chi difende non solo la propria sopravvivenza ma l’intero impianto di valori su cui è costruita. Una minaccia che non è solo teorica
Il regime degli Ayatollah non si è limitato alle parole. Attraverso i suoi proxy armati in Libano (Hezbollah), in Siria, a Gaza e nello Yemen, ha condotto per anni una guerra a bassa intensità contro Israele e contro l’influenza occidentale in Medio Oriente. I missili lanciati contro le città israeliane, gli attacchi ai mercantili nel Golfo, l’appoggio a milizie jihadiste in tutto il mondo arabo, sono il segno tangibile di un’aggressività sistematica e programmatica. La corsa all’arma atomica, se portata a compimento, segnerebbe il punto di non ritorno.
È in questo contesto che va letta l’azione militare congiunta di Washington e Tel Aviv: un’azione volta non alla conquista, ma alla neutralizzazione di una minaccia esistenziale. Proprio come Roma non poteva permettersi una terza guerra punica in casa propria, così Israele non può permettersi che un regime apertamente genocida si doti di un’arma capace di annientarlo in un colpo solo.
L’attacco è dunque anche un messaggio politico: non è Israele a minacciare l’equilibrio regionale, ma chi ha fatto del fanatismo ideologico e della destabilizzazione uno strumento ordinario di politica estera.
L’Europa assente e il rischio di un Medio Oriente in fiamme
Tuttavia, il confronto armato, per quanto necessario nel breve termine, non può risolvere da solo le tensioni profonde che attraversano la regione. Serve un intervento politico lungimirante, e qui entra in gioco la grande assente: l’Europa. Dopo anni di appelli alla moderazione e tentativi diplomatici inefficaci, l’Unione Europea ha oggi l’occasione di rientrare nella partita, non come potenza militare, ma come promotrice di un nuovo quadro negoziale.
L’intervento europeo dovrebbe muoversi su un doppio binario: da un lato il sostegno alla sicurezza di Israele e alla stabilità regionale, dall’altro la costruzione di una “road map” politica che, dopo la sconfitta dell’asse radicale sciita, favorisca la transizione dell’Iran verso un regime più aperto, pluralista e rispettoso del diritto internazionale. Solo un cambiamento profondo a Teheran potrà disinnescare la spirale bellica e creare le condizioni per una pace duratura.
Non si tratta di “esportare democrazia” con le bombe, ma di cogliere un’occasione storica per accompagnare il popolo iraniano – già segnato da anni di repressione, crisi economica e isolamento – verso una nuova stagione politica. Le potenze occidentali, se unite, possono offrire al futuro Iran una prospettiva alternativa a quella del fondamentalismo e dell’odio, proprio come nel dopoguerra europeo si seppe ricostruire una Germania democratica dopo la fine del nazismo.
Una pace fondata sulla sicurezza e sui diritti
Il mondo non può tollerare che un regime ideologico e aggressivo si doti dell’arma atomica, come non poteva tollerare un ritorno del totalitarismo in Europa. L’intervento americano e israeliano, per quanto controverso, va collocato all’interno di questa logica di sicurezza collettiva. Ma la forza, da sola, non basta.
Dopo la guerra serve la diplomazia, serve una visione. È in questo che l’Europa può giocare un ruolo cruciale, offrendo le sue competenze storiche nella mediazione, nella ricostruzione e nella promozione del diritto internazionale. Come Scipione non si limitò a distruggere Cartagine, ma contribuì a disegnare un nuovo ordine mediterraneo, così oggi l’Occidente deve farsi promotore di un ordine medio-orientale fondato su equilibrio, sviluppo e rispetto reciproco. La pace non è mai solo assenza di guerra, ma progetto politico condiviso. E ora, per l’Europa, è finalmente arrivato il tempo per costruirlo.
Michele Rutigliano