La teoria dei corsi e ricorsi storici stimola una rilettura della storia economica dei dazi nel mondo occidentale, di cui l’Europa è “magna pars “.
Nel 1882, il Congresso statunitense approvò il “ Chinese Exclusion Act “ che fu un pacchetto di provvedimenti contro l’immigrazione di cinesi negli Usa. Nel 1890, gli Usa approvarono il “ Tarif Act “ , che decretava l’applicazione di dazi su numerose merci, anche incrementando quelli esistenti. Nel 1892, in Francia, furono adottate misure simili; nel 1897, lo stesso fece la Germania. Nel 1902, la Gran Bretagna abbandonò il suo credo nel libero scambio per applicare le tariffe “imperiali”, a protezione del suo commercio.
Ancora, a seguito della Grande Depressione statunitense del 1929 , i Governi occidentali decisero una nuova introduzione di dazi per un’autosufficienza economica. In quegli anni, i governanti fecero la scelta di ridurre il ruolo del libero scambio e del libero mercato mediante le loro politiche economiche. Venne, cioè, attuato , sinteticamente, il tentativo da parte del singolo paese di essere il più possibile autonomo mediante l’introduzione dei dazi. Venne data fiducia al mercato nazionale rispetto alla integrazione internazionale. Si può parlare di un nuovo “ mercantilismo“, nel ricordo del protezionismo realizzato dal ministro delle finanze di Luigi XIV : Jean Baptiste Colbert, politica attuata nella convinzione di proteggere al meglio l‘interesse nazionale francese.
Il risultato è stato che le politiche protezioniste dei vari paesi contribuirono, in misura significativa, a far sì che ci si affidasse alla Prima e alla Seconda guerra mondiale per risolvere il conflitto di interessi creatosi tra le singole economie. Dopo la tragedia bellica, con l’apertura dei mercati e la loro integrazione, iniziò una fase di sviluppo economico e di benessere sociale.
Ora, con l’elezione a Presidente di Donald Trump, gli Usa sembrano voler tornare al passato, puntando sull’autosufficienza. Avverrebbe la transizione dal ciclo neo-liberista ad uno nuovo, caratterizzato dalla fine dell’egemonia statunitense e del suo internazionalismo, mediante l’intervento dello Stato con i dazi. Avverrebbe un mutamento strutturale dell’attuale modello neoliberista, che si è affermato come paradigma dominante dopo il crollo dell’economia sovietica. La transizione ad un nuovo modello troverebbe una forte giustificazione nella creazione di elevate disuguaglianze economiche e nelle tensioni sociali, che hanno indebolito sensibilmente il welfare state .
Con il superamento delle barriere nazionali, la globalizzazione favorì le imprese che migliorarono le loro performance in termini di efficienza produttiva e, quindi, di competitività. Nel complesso, il sistema economico produsse come non aveva fatto in passato; il commercio globale aumentò, tra il 1990 e il 2010, più del doppio.
Tuttavia, questa fase di crescita generò malcontento; come già indicato principalmente per effetto delle disuguaglianze sociali. Questa reazione ha messo in discussione la democrazia liberale, in specie nei paesi di recente sviluppo economico. Con il malcontento viene meno l’illusione di una crescita infinita a tassi inverosimili. E viene meno la fiducia nel cambiamento e nella transizione verso forme più evolute della democrazia. In particolare, il favore dell’elettorato Usa per Trump, e la sua economia autosufficiente, può essere la traduzione del malessere sociale in una manifestazione di simpatia verso forze economiche e sociali elitarie, illiberali, egoiste.
Roberto Pertile