Segue la prima parte pubblicata ieri (CLICCA QUI)
Le elezioni europee di giugno non hanno solo aperto i complessi negoziati per rinnovare le cariche dell’Unione, segnano anche l’inizio di un quinquennio nel corso del quale l’Unione sarà chiamata a dare risposte a sfide di grande rilievo.
Limitiamoci alle sfide principali: transizione ambientale, sviluppo e trasformazioni dell’economia europea, crisi internazionali e migrazioni sono i grandi temi sui quali l’Unionesi dovrà cimentare con importanti ricadute anche sulla vita politica dell’Europa e dei paesi membri. Su questi importanti dossier è necessario che l’Unione acceleri con decisione il passo e faccia seriamente i conti con le risorse finanziarie che questo comporta se non vuole
restare indietro e in posizioni di dipendenza rispetto agli altri grandi attori mondiali.
Contemporaneamente, se si vuole far tesoro della lezione delle elezioni europee, è necessario che sulle grandi scelte l’orientamento sia sì lungimirante e fermo, ma non si dimentichi che è altrettanto importante avere il consenso delle opinioni pubbliche spesso fortemente contrariate dagli impatti negativi di politiche pensate in un’ottica troppo
ideologica o tecnocratica.
La questione ambientale è forse quella che meglio mette in luce la duplice esigenza che abbiamo evidenziato: se l’Unione vuole continuare, come è giusto che sia, a fare da capofila a livello mondiale di politiche coraggiose di mitigazione degli effetti negativi delle attività umane sul clima, deve capire anche, come le elezioni europee hanno mostrato, che queste politiche, a volte esasperatamente regolatrici, hanno costi non equamente distribuiti sulle
popolazioni e suscitano forti reazioni di rigetto. È necessario allora che di questo si tenga conto prevedendo significative misure di compensazione per gli strati della popolazione
maggiormente colpiti. Diventa quindi cruciale la capacità dell’Unione di mettere in campo
ingenti risorse finanziarie.
La debole crescita economica dell’Europa, ma anche il suo ritardo rispetto agli Stati Uniti da un lato e alla Cina dall’altro in alcuni dei campi più avanzati delle trasformazioni tecnologiche richiedono un serio ripensamento delle priorità delle politiche europee. Rispetto al passato in cui l’attenzione dell’Unione è stata tutta centrata sulla stabilità finanziaria dei bilanci nazionali e ha avuto il suo fulcro nel Patto di Stabilità e Sviluppo [in realtà molto sulla stabilità
e poco sullo sviluppo], con i suoi vincoli in materia di deficit e debito pubblici, è arrivato il momento di mettere invece al centro le politiche di sviluppo senza le quali il modello europeo di una economia socialmente equilibrata rischia di andare a gambe all’aria. Anche qui il sostegno che le forze dell’estrema destra ricevono in sede elettorale dalle componenti della popolazione più svantaggiate dovrebbe insegnare qualcosa.
La decisione cruciale per il futuro dell’Unione è se gli ingenti investimenti necessari per invertire la curva del declino
europeo dovranno essere a carico degli stati membri, accentuando così le divergenze interne
all’Europa, o invece se si voglia finanziarli in parte significativa con un rafforzato bilancio
europeo a salvaguardia della coesione della UE.
Sul fronte delle crisi internazionali i prossimi due anni saranno decisivi per capire se in Europa può essere ristabilita una pace giusta e stabile. Condizione essenziale è che sia respinta l’aggressione russa all’Ucraina che è l’ostacolo principale per ricostruire un assetto di pace rispettoso del diritto all’integrità territoriale e delle sovranità degli stati europei. Un assetto che dovrà ricomprendere anche la Russia (quando la dirigenza russa avrà capito il grave
errore commesso con la cosiddetta “Operazione militare speciale”). Come è chiaro la questione della pace non riguarda soltanto l’Unione Europea: gli Stati Uniti hanno comprensibilmente assunto un ruolo di primo piano nella difesa dell’Ucraina, ma l’Europa non può rinunciare ad assumersi le proprie responsabilità.
Fin qui l’Unione ha mostrato una forte unità di intenti sulla linea di principio e su alcuni aspetti del sostegno all’Ucraina (le sanzioni alla Russia, l’accelerazione del processo di ammissione dell’Ucraina e della Moldova
nell’Unione, i primi aiuti finanziari). Molto più debole si è rivelata la sua capacità di aiuto militare in ragione dei limiti di bilancio della UE e della assenza degli strumenti operativi di una vera politica di difesa europea. L’aiuto militare europeo è stato quindi essenzialmente demandato all’iniziativa dei singoli stati (e alle loro disponibilità e volontà) con un qualche sforzo di coordinamento dell’Unione.
È chiaro che questo non basta se l’Europa vuole essere efficace e non troppo dipendente dagli Stati Uniti su questo vitale dossier. E il problema di una politica estera comune più forte e dotata di risorse adeguate si pone anche sugli altri importanti dossier, come il Medio Oriente, il partenariato con l’Africa e la gestione delle migrazioni irregolari.
Dove di posiziona su queste questioni l’Italia e il suo governo? Meno Europa o più Europa?
Una Europa più confederale o un’Europa più federale? Un bilancio europeo limitato come quello attuale o uno più ricco per sostenere più forti investimenti europei? Passati gli slogan della campagna elettorale credo che debba esser a tutti chiaro che su tutti i grandi temi sopra indicati l’interesse dell’Italia sia per più Europa, un’Europa più federale e con maggiori capacità di bilancio. Se qualcuno pensa che l’Italia da sola potrebbe fare meglio credo
dovrebbe portarne le prove.
Maurizio Cotta