Sono passati quasi tre anni dall’insediamento del Governo Meloni. Un tempo sufficientemente lungo che ci consente di tracciare un primo bilancio dell’azione esecutiva, almeno per quanto riguarda una delle aree più fragili del Paese: il nostro Mezzogiorno. La domanda è inevitabile e riguarda milioni di cittadini del Sud: quali progressi sono stati realmente compiuti nell’economia, nell’industria, nell’agricoltura, nel commercio e nei servizi? E soprattutto: quali politiche concrete sono state messe in campo per arginare la fuga dei giovani, per contrastare lo spopolamento delle aree interne e per offrire nuove opportunità ai territori più deboli?

Purtroppo, le risposte non sono confortanti. Se è vero che in alcune fasi del 2023 si è registrata una crescita superiore alla media nazionale, è altrettanto vero che il quadro complessivo del Mezzogiorno resta critico, e in certi ambiti è addirittura peggiorato. Il problema dello spopolamento ha assunto contorni drammatici: piccoli comuni delle zone interne si svuotano inesorabilmente, mentre i giovani continuano a emigrare verso Nord o all’estero, in cerca di lavoro e dignità. In alcune regioni come la Basilicata, l’emorragia demografica assume ritmi preoccupanti, e con essa si accentua il declino del ceto medio, impoverito e sfiduciato. Ci si sarebbe aspettati molto di più dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che riservava al Sud una quota rilevante dei fondi europei. E invece, tra lentezze burocratiche, carenze di visione e difficoltà amministrative, molte risorse restano inutilizzate o mal spese.

A ciò si aggiungono le inadeguatezze della sanità, l’inefficienza dei trasporti e l’assenza di politiche industriali realmente capaci di radicare lavoro stabile e di qualità. In troppe zone del Mezzogiorno si continua a vivere di sussidi o di precarietà, in un contesto che scoraggia gli investimenti e alimenta la sfiducia. Eppure, qualcosa si potrebbe fare. Ci sono esempi virtuosi anche in Italia, come quelli adottati in Trentino-Alto Adige o in Lombardia, dove sono stati concessi incentivi fino a 100.000 euro per famiglie che decidono di trasferirsi nei borghi spopolati,  se avviano un’attività o ristrutturando immobili abbandonati. Perché non replicare esperienze simili nel Sud, adattandole alle caratteristiche del territorio?

Ma soprattutto, sarebbe utile guardare anche a quanto fatto da altri governi europei. In Francia, ad esempio, il piano “Action cœur de ville” ha ridato vita a centinaia di centri urbani medi attraverso investimenti mirati in infrastrutture, mobilità e cultura. In Germania, il programma regionale “Wirtschaftsförderung” (Promozione dell’economia regionale)  ha sostenuto con forti incentivi le aziende che si insediano nelle regioni più povere dell’Est. Nel Regno Unito, il “Levelling Up Fund” (Fondo per il riequilibrio)  ha finanziato progetti pubblici e privati nelle aree più trascurate del Paese, combinando sviluppo locale, rigenerazione urbana e valorizzazione del patrimonio.

Perché non pensare, anche in Italia, a un grande piano nazionale per il rilancio del Sud, ispirato a questi modelli europei? Un piano che preveda: forti incentivi fiscali e contributivi per chi investe o crea impresa nelle aree svantaggiate; sgravi per i giovani che rientrano o decidono di restare nei propri paesi d’origine; un fondo nazionale per la rigenerazione urbana dei borghi del Sud, mirato a cultura, turismo, edilizia sostenibile; una vera strategia per la sanità territoriale e la digitalizzazione dei servizi, perché non si può restare cittadini di serie B nel proprio paese; un forte investimento nella scuola e nella formazione professionale, per preparare le nuove generazioni al lavoro di domani.

Tutto questo presuppone una rottura netta con le logiche clientelari del passato e un cambio di passo deciso nella qualità della classe dirigente locale e nazionale. Serve una visione nuova, fondata sulla valorizzazione delle specificità del Sud, non su politiche assistenziali o su interventi frammentari. L’alternativa è rassegnarsi all’irreversibile declino di intere aree del Paese. Ma l’Italia, se vuole restare una nazione davvero unita, non può permettersi di perdere il suo Sud e abbandonare ad un problematico ed incerto destino le nuove generazioni meridionali.

Michele Rutigliano

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