Da quando l’Italia che produce ha cessato di crescere (quindi dal 2009), ma anche prima, il leitmotiv che imperversa è: “le riforme strutturali che aiutano a crescere”. Questo è ampiamente proclamato, ma raramente declinato, quasi fosse cosa ben nota e chiara. Quando si passa a questa declinazione, l’elenco ripetuto quasi alla nausea è: “1) la necessità di rendere più efficiente la nostra Pubblica Amministrazione, con quella farraginosa burocrazia che frena la vita economica del Paese; 2) una giustizia civile e commerciale troppo lenta e non al passo con le esigenze delle imprese che chiedono certezze giuridiche in tempi ristretti, compatibili con il normale dinamismo delle attività imprenditoriali; 3) un carico fiscale eccessivo, che strangola la competitività della nostra economia rispetto al resto del mondo”.
A parte una quota dell’ultima riforma citata, si tratta di proposte che normalmente un economista può fare a cuor leggero, poiché riguardano materie da giuristi e quindi le mancanze che richiedono interventi sono in gran parte di responsabilità altrui.
Più prossima alla responsabilità degli economisti è la revisione della spesa pubblica, con una certa predilezione per una diminuzione dell’ammontare complessivo onde permettere la riduzione dell’imposizione fiscale. Questo è l’approccio degli economisti che potremmo chiamare “economisti contabili”, poiché basano le loro considerazioni sulla dimensione quantitativa delle voci del bilancio della P. A., mentre l’approccio corretto deve riguardare l’aspetto qualitativo delle stesse voci di bilancio. Infatti, il grosso problema del deficit pubblico italiano (e lo stesso dicasi per il debito pubblico) non è la sua dimensione quantitativa (che, per il deficit potrebbe avere di per sé giustificazione nella presenza di deficit nella domanda aggregata dell’economia), ma qualitativa: deficit e debito sono fatti negativi se si formano realizzando spese di cattiva qualità sociale; sono fatti positivi se essi permettono di realizzare spese socialmente utili: l’analisi qualitativa deve sempre prevalere su quella quantitativa!
Quest’ultima, poi, dev’essere impostata in modo coerente con l’evoluzione dei tempi; ad esempio, in un contesto in cui la popolazione anziana aumenta rispetto alla popolazione in età lavorativa, non si può continuare a considerare il sistema pensionistico autosufficiente: l’aumento in parola richiede che una parte della spesa pensionistica sia coperta con la fiscalità generale in aggiunta ai contributi previdenziali pagati dai lavoratori e dai datori di lavoro. Questo anche perché il sistema pensionistico pubblico – diversamente dal sistema assicurativo privato – è uno snodo rilevante nell’ambito della politica redistributiva che fa capo allo Stato.
V’è un altro punto cui vorrei fare cenno: che ci si possa stupire della “situazione dell’economia italiana, pur essendo il nostro il secondo paese manifatturiero europeo”. È vero questo ma, anche a questo proposito, non è la quantità che conta, bensì la qualità. L’Italia, nella sua globalità, ha un grosso comparto manifatturiero, il quale però – a parte alcune eccezioni – cerca di competere nel mondo globalizzato in termini di prezzo (e lo si vede empiricamente anche guardando l’interesse di gran parte delle imprese ad assumere lavoratori con contratti a – breve – tempo determinato). Questi contratti sono in contrasto con la prospettiva d’investire nella qualificazione dei lavoratori e, se non s’investe in capitale umano, non si è in grado di competere in termini di qualità, che è l’unico modo per poter competere con successo in un mondo globalizzato, nel quale molti nostri concorrenti applicano il dumping retributivo e valutario – che li rende imbattibili sul piano dei prezzi – mantenendo quindi vivo il nostro importante comparto manifatturiero.
Ora, nell’ambito della forte crisi economica sollevata dalle conseguenze della pandemia da Covid-19, la questione delle riforme strutturali che aiutano a crescere è stata ampiamente riattivata. Da quando sembra che le centinaia di miliardi di euro che l’UE ha preventivato di erogare, nella forma di trasferimenti o di prestiti, all’Italia dipendono dalla capacità del nostro paese di fare le riforme strutturali che l’UE ci chiede, e non ci chiede ovviamente che le risorse che erogherà siano utilizzate per ridurre le imposte in termini generali. L’UE europea ci chiede progetti di ripresa basati sullo sviluppo delle aree strategiche quali sanità, istruzione, infrastrutture, ricerca, nuove tecnologie…!
Ma l’UE è un soggetto che, in termini biblici, guarda attentamente le pagliuzze, più o meno grosse, che i singoli stati membri hanno nei loro occhi, ma non si perita di guardare le travi che essa ha nei propri occhi.
Mi riferisco alle riforme che essa dovrebbe fare o che dovrebbe concorrere a fare, che sono di per sé fonti di crisi dell’economia europea: 1) il ritorno al passato, con la regolamentazione dei movimenti finanziari internazionali sia di breve periodo (di natura speculativa) sia di lungo periodo, che hanno portato anche alla nascita della competizione fra gli stati (al fine di attirare i capitali dall’estero) attraverso il dumping fiscale e hanno ampiamente destabilizzato i movimenti di capitale finanziari e reali; 2) l’abbandono dell’approccio “ordoliberistico” all’interno dell’Unione Europea e, in particolare dell’Unione Economia e Monetaria Europea, applicato a livello dei saldi dei bilanci degli stati membri, quindi con un significato puramente quantitativo, per di più creando una coppia di valori (3 per cento e 60 per cento) inconcludente, poiché coppia di valori di equilibrio fra un’infinità di coppie che portano allo stesso risultato di equilibrio; al momento, il patto di stabilità, che comprende il predetto vincolo quantitativo, è sospeso, ma diversi paesi membri stanno brigando per reintrodurlo al più presto; 3) l’eliminazione dell’asimmetria fra una moneta comune e tanti bilanci pubblici quanti sono gli stati dell’UEME, che rende la politica monetaria europea bloccata rispetto a una possibile e auspicabile azione di affiancamento alle politiche fiscali (una per ogni Stato). Esiste la imprescindibile necessità di “una sola moneta per un solo bilancio pubblico europeo”!
Daniele Ciravegna
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