La deriva scivolosa degli ordinamenti democratici, come li abbiamo conosciuti fin qui, a cominciare dal nostro, volge verso posture, variamente declinate, ma, pur sempre, di stampo autoritario. Ci porterebbe fuori strada – magari per assecondare pretesti di controversia politica nel breve momento – ritenere che si tratti di un effetto di trascinamento del “trumpismo”.

Resteremmo alla superficie di un fenomeno che non basta descrivere, ma di cui va compresa, si dovrebbe dire, la “processualità”. Quali che siano le ragioni profonde, quelle plausibilmente vere da cui prende le mosse, ma anche come queste siano andate crescendo nel tempo, per quali percorsi carsici abbiano camminato sotto traccia prima di approdare ora ad una evidenza palmare.

Trump è molto meno la causa di quanto non sia, piuttosto, l’effetto di una mutazione strutturale del “potere”, che lo precede e si va affermando. Come sempre si verifica, quando compare un sentimento popolare nuovo, un sommovimento ancora nebuloso in cui si mischiano attese e timori e nel quale pur si intuiscono sensibilità inedite, e come se il “demone”, se così si può dire, di questa trasformazione si incaricasse di crearne un alfiere che la incarni ed, a sua volta, ne enfatizzi i caratteri. La dove una volta risiedevano la ragione ed i principi, i valori – cioè i motivi per cui valga la pena vivere – e l’etica, sia pure in forma ideologica, oggi campeggia la forza, solo la forza, la nuda forza.

Ma perché succede un po’ ovunque e proprio ora? E’ come se, ancor prima d’essere sotto attacco, fossero le democrazie a gettare la spugna ed a ritrarsi, lasciando campo aperto a poteri “altri”, che facilmente lo invadono, rivendicando una efficacia tempestiva che i riti della democrazia faticano a pareggiare.

In primo luogo, la tecnologia, la finanza, la comunicazione: poteri differenti che pur si fanno forti di un tratto comune ed è ciò che qui rileva: godono l’uno, l’altro e l’altro ancora di una legge propria, di una sorta di autosufficienza che li rende impermeabili al contesto su cui pur scaricano, in modo unidirezionale, il portato delle loro dinamiche.

Quasi come se le democrazie fossero scosse da un rumore di fondo che mina la loro fiducia ed avvertissero che le leve del potere scivolano via ed, irreparabilmente, non rispondono ai loro comandi. In altri termini, non ce la sentiamo più di affidarci a noi stessi. Abbiamo la sorda percezione di non saper più tenere il bandolo di eventi che possono, in ogni istante, irrompere nel nostro vissuto quotidiano e destabilizzarlo, creando un’inquietudine pervasiva e dolorosa che ci amareggia la vita. Abbiamo bisogno di essere “salvati”, ma non sappiamo da chi.

Nelle acque mosse del guado che stiamo attraversando da una stagione della storia ad un’altra, ci sembra di scorgere solo due punti d’appoggio che ci possano rassicurare e proteggere dalla furia delle onde: la nicchia dell’autoreferenzialità per chiunque si rassegni ed accetti di rattrappirsi nella propria individualità e la delega della nostra coscienza critica alla forza di un potere che finalmente ci sovrasti.

Siamo stanchi di essere liberi e, dunque, oberati da una responsabilità personale diventata onerosa ed insopportabile. Ci eravamo illusi che la libertà fosse di per sé data e scontata, come l’aria che respiriamo ed, invece, ci siamo accorti come pretenda una fatica morale, cognitiva, psicologica che è meglio scansare.  La libertà – o forse meglio l’attitudine ad essere liberi – è un dono, ma anche una conquista. Più facile lasciarsi omologare dal sistema. Allineati e coperti, nel solco dell’opinione comune.

Il mondo si è complicato e muta troppo rapidamente perché se ne possano prendere le misure. Camminare nel bosco percorrendo l’intrico dei sentieri non ci garantisce nessun approdo sicuro. A meno che, uno sguardo sovrasti dall’alto la foresta e ci prescriva la direzione di marcia. In qualche modo, siamo indotti a rifugiarci nel grembo rassicurante di una declinazione “meccanica” del potere. Affidandoci ad automatismi ed a geometrie obbligate che stanno, cioè, nell’ordine naturale delle cose, finalmente ad algoritmi che siano capaci di assumere, nella loro sequenza predeterminata e certa, la nostra stessa libertà di coscienza, assolvendoci da ogni personale e collettiva responsabilità, in nome di una necessità intrinseca al mondo, in ogni modo, irrecusabile. Come se stessimo transitando davvero – e non a caso c’è chi ricerca esattamente qui la propria salvezza – dall’ “homo sapiens” all’ “homo technologicus”.

Non siamo in grado di “domare” la complessità, di governare – come diceva profeticamente Romano Guardini, fin dagli anni venti – la “potenza” del nostro tempo. Non abbiamo ancora elaborato le nuove categorie di cui abbiamo bisogno. Stiamo cedendo ad un assalto concentrico dei cosiddetti “poteri forti” alla democrazia o, soprattutto, ce ne facciamo volentieri complici?

Domenico Galbiati

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