L’andamento dell’incontro tra la domanda e l’offerta nel mercato del lavoro italiano ha raggiunto livelli di problematicità che non trovano riscontro negli altri Paesi sviluppati. Nel corso della ripresa economica post pandemia, la quota della domanda di lavoro delle imprese che, per diversi motivi, non trova lavoratori disponibili è raddoppiata fino a raggiungere la soglia del 40% sul totale dei profili richiesti.
Le polemiche sulla qualità del lavoro e delle remunerazioni nei comparti dei servizi, nel lavoro agricolo, nelle costruzioni e nella logistica, hanno senso fino a un certo punto. La stagionalità, gli orari delle prestazioni sono connaturati con le caratteristiche di questi settori. Le paghe contrattuali riflettono i livelli di produttività che, come noto, non sono particolarmente elevati. La nostra collettività ne beneficia in termini di flessibilità e di contenimento dei prezzi delle prestazioni, ma finge di ignorare che sono il frutto dei sacrifici di qualche milione di lavoratori italiani e stranieri.
La carenza di manodopera disponibile dipende solo dalle remunerazioni inadeguate? Pagare meglio i lavoratori può contribuire a ridurre il fenomeno, ma i riscontri sul campo mettono in evidenza che sono altri fattori, come la discontinuità dei rapporti di lavoro e gli orari disagiati, a rendere meno appetibili le offerte, soprattutto per le giovani generazioni. Nell’ultimo decennio la carenza di manodopera è stata compensata da un incremento del numero degli immigrati e da un aumento delle prestazioni sommerse svolte dai lavoratori formalmente assunti o da quelli reperiti occasionalmente per far fronte ai picchi della domanda. Sulla base delle stime dell’Istat nei comparti citati si annidano i due terzi dei 180 miliardi di redditi e di prestazioni lavorative non dichiarate da parte di lavoratori autonomi e dipendenti.
Nella vulgata corrente il lavoro sommerso tende a essere confuso con i lavoratori poveri e sotto remunerati. Una fattispecie realistica per la specificità dei lavoratori immigrati, ma anche l’occasione per integrare il reddito individuale e familiare per una buona parte dei prestatori che sono poveri solo per il fisco.
Quanto possono influire su queste dinamiche i sostegni al reddito pubblici? Sul piano sostanziale, l’accettazione di offerte di lavoro a termine regolari che comportano la rinuncia all’assegno pubblico non è razionale. Infatti non avviene quasi mai, anche perché la probabilità di sanzionare gli eventuali rifiuti è praticamente inesistente. Mentre diventa del tutto razionale cercare di integrare il sussidio pubblico con le prestazioni lavorative sommerse. In Italia dichiarare i redditi realmente percepiti significa rinunciare alle prestazioni assistenziali (condizione per accedere al Reddito di cittadinanza, all’importo integrale degli assegni unici per i figli e alle varie tipologie di bonus erogati dalle amministrazioni) vanificando di fatto i possibili guadagni derivanti da un lavoro regolare.
Questi mercati del lavoro sono preda di un circuito vizioso. L’abnorme quota di lavoro sommerso finisce per generare un effetto dumping che deprime la crescita dei salari reali. Le basse remunerazioni rendono meno appetibili le nuove offerte di lavoro, spiegando così razionalmente l’esigenza di programmare l’ingresso di nuovi immigrati in presenza di 3,5 milioni di persone in età di lavoro che beneficiano attualmente di sussidi pubblici.
Esiste un modo per interrompere questo circuito? La risposta è affermativa. Basterebbe sincronizzare nei territori la domanda di lavoro con le liste di disponibilità dei beneficiari di sostegni al reddito, rendendo obbligatoria l’accettazione delle offerte di lavoro pena la perdita del sussidio in caso di rinuncia. Si potrebbe garantire la possibilità di beneficiare nuovamente dei sostegni pubblici nel caso di mancata riconferma dei contratti a termine. Le parti sociali interessate, d’intesa con le istituzioni e con i servizi pubblici e privati per l’impiego, potrebbero farsi carico di promuovere le liste nel territorio con programmi di formazione mirati ad accrescere le competenze dei lavoratori in coerenza con i fabbisogni delle imprese veicolando l’utilizzo delle risorse finanziarie delle politiche attive. Tutto ciò potrebbe consentire di ridurre l’uso opportunistico delle prestazioni sociali e di concentrare le attività ispettive verso le imprese che continuano a utilizzare le forme di intermediazione illegale della manodopera.
Cosa impedisce di farlo? L’ipocrisia collettiva che si avvale delle false narrazioni sulla precarietà e sul lavoro povero per continuare a mungere la mucca dello Stato senza turbare i comportamenti opportunistici e le complicità che si annidano nel tessuto sociale.
Natale Forlani