È il quesito del giorno. L’Italia c’è o non c’è? Domanda puerile, perché l’Italia, poco, ma ha un suo peso. Solo che a noi piace o esaltarci o deprimerci. Non sappiamo considerare nel suo insieme, e con equilibrio, il senso della nostra presenza nel mondo. Una “sorte di dissociazione” che richiama quel che Aldo Schiavone, nel suo “Italiani senza Italia” (Einaudi 1998), definisce un ” ricorrente ondeggiare, nel sentire degli italiani, che non smettono di raffigurarsi in eterna -e snervante- sospensione tra dannazione e riscatto, fra primato e decadenza… un continuo oscillare del nostro cammino tra l’esibizione di una debolezza inguaribile – come una perturbazione di cui non siamo riusciti a liberarci – e una forza altrettanto radicata, che ci ha sempre, nonostante tutto, mantenuto in piedi”.
Da qui le opposte, ma conviventi tentazioni: presumere di contare più di quel che pesiamo o il metterci alla ricerca di “un padrone”. I troppo furbi provano a giocarsi entrambe le carte. Ma non sempre è possibile. Soprattutto, non sempre c’è l’abilità nel farlo.
In queste ore non capiamo bene se siamo stati esclusi dalla cabina di regia europea o ce ne siamo tenuti, noi, lontani. Mettendo insieme le dichiarazioni di Giorgia Meloni e quelle dei sui fidati proprio non si comprende. Da una parte, si sostiene che la mancata presenza ai recenti vertici sull’Ucraina sia una scelta di Roma. Dall’altra, si mastica amaro per l’esclusione. Dopo che Macron ha smentito clamorosamente la nostra Presidente del Consiglio sul fatto che le riunioni abbiano riguardato la prospettata possibilità che gli europei inviino truppe in Ucraina, uno dei più fidi di Palazzo Chigi, il Sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, ha alzato il tiro sostenendo che Roma non partecipa ad incontri che “minano l’Occidente”.
Torniamo, insomma, ad un quesito che abbiamo anche noi spesso posto in questi giorni: ma di quale Occidente parliamo? La realtà è che, da un lato, vi è l’interpretazione trumpiana, quella dell’America “first”, e, dall’altro, la foto di Macron, Merz, Starmer e Tusk. Sono essi, forse, meno Occidente? Oppure, interpretano la visione di chi è costretto a porsi il problema della particolare vicinanza del conflitto scatenato da Vladimir Putin? In un contesto in cui, tra l’altro, c’è l’altra di questione: quella della guerra commerciale che Trump ha portato mirando proprio al cuore dell’Europa.
Ignorare questo fa molto dubitare delle capacità di Governo di chi occupa adesso Palazzo Chigi. Evidentemente non in grado di superare la “dissociazione” e il “ricorrente ondeggiare” di cui parla Schiavone. E il dubbio cresce quando, nel tentativo di intestarsi l’incontro della von der Leyen con il Vicepresidente americano Vance, reso possibile dalla loro contemporanea presenza a Roma in occasione della intronizzazione di Papa Leone XIV, si mischiano i fatti d’Ucraina con la guerra dei dazi. Questa auto esaltazione la dice lunga su di un impegno profuso soprattutto nella ricerca di un ruolo.
E’ inutile abbandonarsi alle polemiche personali con il Presidente francese Macron e cercare una sponda con il Cancelliere tedesco Merz: egli a tutto può rinunciare fuorché all’Asse Franco – tedesco. Un Asse che, è sotto gli occhi di tutti, oggi viene rafforzato dall’unità di visione generale di cui sono partecipi in più sia il britannico Starmer, sia il polacco Tusk.
Il punto di fondo, allora, è quello di riequilibrare la posizione italiana. Partendo dal principio che se i processi si vogliono governare e non subire si deve concorrere a formarli e ad indirizzarli. Senza attardarsi con l’autocompiacente fantasticare su “compiti di mediazione” che non si vede chi ci abbia affidato. Necessario, dunque, un cambio di passo nella sostanza e negli atteggiamenti ben considerando come si sta trasformando la dinamica europea da cui noi non possiamo certo chiamarci fuori. E che pesa più di ogni visione tolemaica di se stessi.