In una lettera inviata alla moglie Elfride, Martin Heidegger scrive: “Io lo chiamo Eros, secondo le parole di Parmenide, il più antico degli dei….Il colpo d’ala di quel dio mi sfiora ogni volta che compio un passo essenziale nel pensiero e mi avventuro per una strada inesplorata”.
Il nuovo anno reca con sé nuove provocazioni e nuove sfide. Le più insidiose sono, ad un tempo, le più affascinanti e le più promettenti, e sollevano domande che riguardano la comprensione che abbiamo di noi stessi.
Viviamo un tempo difficile e sofferto, ma, a suo modo, pur sempre straordinario, assediati, su numerosi fronti, da eventi che ripropongono, ma con un’impellenza che, forse, l’umanità non ha mai conosciuto prima, le domande di sempre, anzi la “domanda”: da dove veniamo, chi siamo davvero, a che punto è il nostro cammino e per dirigerci dove?
Se, sia pure cercando a tentoni, vogliamo ottenere risposta, dobbiamo vivere la radicalita ultimativa del nostro tempo, il tono imperativo delle questioni che lo accompagnano con questa apertura dell’animo e della mente.
Talvolta pare – pensiamo, ad esempio, alle guerre in corso – che ci stiamo muovendo dentro un incessante terremoto sussultorio e che la terra venga a meno, come se si sbricciolasse, sotto i nostri piedi. Eppure, è come se tutto ciò avvenisse nello sforzo di aggredire e scalare quell’ultimo tratto di un versante scosceso che giunge, infine, ad un crinale, oltre il quale si apre un nuovo mondo.
L’umanità ha ancora motivo di avere, comunque, fiducia in sé stessa? È ancora lecito sperare? E non è forse questa la domanda che, con una puntualità profetica, ci pone il Giubileo?
Heidegger – lo attesta la frase di cui sopra – nella sua analisi fenomenologica del pensiero, e del suo primo sorgere, riscopre la relazione intima tra eros e logos già intuita e proposta da Platone. Si dovrebbe partire da qui per esplorare un giudizio sensato in ordine alla provocazione che oggi più sottilmente ci interroga.
L’Intelligenza Artificiale e le sue prospettive, l’impatto che esercita su mille profili della nostra esperienza quotidiana suscita ansie e timori, in molti che fibrillano tra entusiastico stupore e paura d’essere letteralmente “posseduti” ed alienati dall’IA. Senonché – come su queste pagine è stato accennato da tempo – prima di preoccuparci che i robot umanoidi ci possano mettere all’angolo, aspettiamo che sappiano innamorarsi. È , in definitiva, ciò che si desume dalla frase di Heidegger sopra riportata.
Ma non succederà mai. Infatti, per quanto mirabolanti siano le sue performance, l’IA, per sua natura, è necessariamente imprigionata nell’ordine finito delle cose ed, in nessuno modo, può alludere a quella dimensione dell’infinito, cui solo l’uomo può tendere, in virtù dell’attitudine a trascendere sé stesso, grazie alla capacità di amare.
Non dobbiamo temere che i robot ci sopravanzino, ma, al contrario, che, se ci lasciamo prendere la mano, ci facciano retrocedere al loro livello di sapere primitivo. Infatti, “Intelligenza Artificiale” è sostanzialmente un ossimoro, divenuto talmente di uso comune da non poter essere rimosso dal nostro lessico, eppure si tratta di una espressione che non definisce concettualmente le pratiche cui si riferisce.
In buona sostanza, se è “ intelligenza” non puo’ essere “artificiale” e se è “artificiale” non può essere “intelligenza”. L’IA non è altro che calcolo e correlazione statistica che meccanicamente allude all’interazione tra oggetti, ma, in nessun modo, accede alla “comprensione”, non giunge al concetto e non sa quel che calcola.
Del resto, l’IA, nella misura in cui lavora sul passato, non sa dare altro – pur mostrando la granulazione fine del reale – se non ciò che già ha in pancia e, pertanto, in nessuno modo può generare un “evento”, inteso come irruzione, nel corso delle cose, di ciò che è totalmente “altro”.
Solo il pensiero, non il calcolo, può trascendere se stesso, spingersi nell’ignoto e creare un mondo nuovo. Non a caso – accennando ancora alla sua riflessione – Heidegger sostiene che il pensiero inizia dal pathos ed il nostro sapere è necessariamente iscritto nella cornice dello stato d’animo originario che presiede alla nostra conoscenza. Al contrario, l’Intelligenza Artificiale è apatica.
Se prescindessimo dalla forza di gravità di questa “disposizione” intrinseca i nostri pensieri e le nostre idee si disperderebbero in un pulviscolo incomponibile.
Insomma, possiamo continuare a fidarci di noi stessi, possiamo, anzi dobbiamo, allineare le une alle altre le ragioni del cuore e le ragioni della mente che presiedono alla nostra responsabilità nei confronti di noi stessi e del creato.
Domenico Galbiati