Molti di noi hanno tifato per Ettore contro Achille ed avrebbero voluto rovesciare le sorti del duello, come se l’Iliade potesse essere un film a lieto fine, dove, come nel più classico degli “western”, il buono estrae per primo la pistola dalla fondina e fa secco il cattivo.
Invece, succede il contrario e l’epica di Omero raggiunge la sua più alta espressione poetica quando la “pietas” soccombe al furore violento della guerra.
Achille combatte per vendicare Patroclo, ma traduce l’amore per l’amico nelle forme dell’odio e della violenza contro il nemico. Non si accontenta di uccidere Ettore, ma lo umilia e lo trascina attorno alle mura di Troia, tre volte, nella polvere, legato al suo carro. L’aggressore e l’aggredito.
La storia di sempre, come fossimo condannati, dopo l’orrore di ogni guerra, a tornare sugli stessi passi. Ettore – figlio di Priamo, il re aggredito da Agamennone – combatte e muore per il suo popolo, impugna le armi in vece di suo padre e di Paride, suo fratello, si immola per la famiglia, per Astianatte e per Andromaca. Nella sconfitta di Ettore rifulge la vita, nella vittoria di Achille la morte. Come sul Calvario.
Quando da ragazzini – prima della riforma succedeva in seconda media – affrontavamo le pagine dell’Iliade, il sacrificio di Ettore ci lasciava l’amaro in bocca, eppure sapevamo che era lui – lo sconfitto – il vero eroe, il vincitore morale. L’anno dopo, quando si passava all’Odissea, pur apprezzando le gesta di Ulisse, in fondo al cuore, non riuscivamo a perdonargli la “vigliaccata” del cavallo di Troia. L’odio e l’amore, la pace e la guerra, la violenza e la pietà, la patria e lo straniero, il fratello ed il nemico.
Un grande antropologo, scomparso da una decina d’anni, Renè Girard – e sua la teoria o, forse meglio, la scoperta del “desiderio mimetico” – cerca di spiegare dove sia il primo incipit, la risorgiva iniziale da cui prende le mosse il rivolo della violenza, che, via via, da ruscello si trasforma in torrente montano e poi in fiume che esonda, portando immensi danni, prima di trovar pace nel mare. Comincia dal desiderio di un bene che non si può ottenere perché là appartiene ad un’altra persona.
La frustrazione del bene mancato ed ancor più l’invidia per chi lo possiede genera, in un crescendo ininterrotto, rabbia ed ostilità e poi rancore e, poi ancora, sentimenti di odio che nessuna ragione riesce a frenare.
La violenza è dapprima verbale e poi, via via, degenera in forme distruttive che non hanno mai fine. Caino uccide Abele, ma non odia il fratello, odia sé stesso, odia il sentimento oscuro della propria solitudine, il timore di non essere amato.
Perché, istintivamente, stiamo dalla parte di chi è debole ed indifeso, come se avessimo, in fondo al cuore, una riserva di innocenza quasi ingenua, espressione originaria di una disposizione al bene di cui, peraltro, spesso non abbiamo coscienza? Senonché, la violenza è mimetica e contagiosa e progressivamente, come un’ameba viscida e scivolosa, penetra ovunque ed intride per intero il tempo e lo spazio delle nostre vite.
Oltre un certo limite di efferatezza – che oggi è largamente infranto a Gaza come a Kiev – la violenza diventa insopportabile anche per chi la esercita e sorge spontanea una domanda di salvezza e di innocenza.
L’unica apparente via d’uscita che le civiltà – che, di volta in volta, si sono succedute nei millenni della storia dell’uomo – hanno immaginato, sostiene Girard, è quella del “capro espiatorio”, la vittima sacrificale di cui si versa il sangue sull’altare di un dio. Fino al cristianesimo.
Solo il cristianesimo rompe questo infernale circuito di sangue. Anzi, lo rompe Cristo, che offrendosi liberamente al sacrificio della vita, rovescia radicalmente il paradigma fallace del “capro espiatorio” ed apre una nuova stagione della storia, in cui la guerra non è più ineluttabile e la pace finalmente possibile.
Insomma, per altre vie, attraverso la sua riflessione filosofica ed antropologica, Renè Girard giunge a quella pace di Cristo di cui ci ha detto Papa Leone, il primo giorno del suo pontificato.
Domenico Galbiati