Oggi piangiamo tutti la morte di Papa Francesco, il Pontefice venuto “dalla fine del mondo”, come egli stesso si definì la sera della sua elezione, il 13 marzo 2013. Il primo Papa latinoamericano, il primo gesuita sul soglio di Pietro, il primo a scegliere il nome di Francesco, in onore del Poverello di Assisi. Tutto in lui ha parlato, fin da subito, di novità e di rottura rispetto a un certo stile curiale e istituzionale. Il suo pontificato, durato dodici anni, è stato segnato da una costante tensione verso l’essenziale del Vangelo: la povertà, la misericordia, la giustizia. Non ha mai amato gli orpelli, i palazzi, i formalismi. Ha scelto di vivere nella Casa Santa Marta, rinunciando agli appartamenti papali, e ha sempre cercato la prossimità con gli ultimi: i migranti, i poveri, i detenuti, le vittime della guerra e delle ingiustizie. Papa Francesco è stato un pastore, prima che un principe. Il suo stile diretto, a volte persino spiazzante, ha saputo parlare al cuore di milioni di fedeli e non credenti in ogni parte del mondo. Con le sue omelie quotidiane, con le encicliche come Laudatosi’ e Fratelli tutti, con i suoi gesti semplici ma profondi, ha saputo richiamare tutti all’essenziale della fede cristiana: l’amore per Dio e per il prossimo, soprattutto per chi soffre.

Il Papa della misericordia e della pace

È stato un Papa che ha invocato la pace in ogni occasione, anche quando il mondo sembrava sordo e ostile. Le sue parole contro le guerre, le armi, le logiche di potere e di sopraffazione sono state costanti e coraggiose. Non ha mai avuto paura di denunciare “l’economia che uccide”, le disuguaglianze globali, l’indifferenza verso i migranti, lo sfruttamento della Terra. Ha dato voce a chi non aveva voce, spesso in solitudine, spesso contro corrente. E non sono mancate le resistenze. Il suo stile evangelico ha incontrato critiche, ostilità, persino ostinazioni interne. Una parte della Curia e del clero conservatore non ha mai accettato pienamente il suo magistero fatto di semplicità e misericordia. Alcuni cardinali lo hanno pubblicamente contestato, soprattutto sulle aperture pastorali nei confronti dei divorziati risposati, degli omosessuali, dei lontani dalla fede. Francesco ha sofferto queste opposizioni, ma non ha mai ceduto alla logica del conflitto. Ha risposto con la pazienza del seminatore, con la tenacia del pastore. Ha voluto una Chiesa “in uscita”, “ospedale da campo”, più vicina al popolo che ai palazzi. Una Chiesa sinodale, capace di ascoltare e camminare insieme, anche nelle differenze.

Il suo spirito di povertà contro il male di questo mondo

Ha ridato centralità alla misericordia come cuore del Vangelo. Il Giubileo straordinario del 2015 ne è stato il simbolo più evidente. Tutta la sua vita, però, è stata un giubileo vissuto giorno per giorno: l’abbraccio con il mondo musulmano ad Abu Dhabi, la visita a Lesbo tra i migranti, la denuncia del clericalismo come “perversione della Chiesa”, il continuo richiamo a una fede concreta e incarnata. Ora che ci lascia, resta il suo esempio. Il suo volto affaticato e sorridente, le sue parole semplici ma profondissime, il suo cuore aperto agli altri. Resta il suo insegnamento, che non era ideologia ma Vangelo vivo. Resta il suo invito a “non lasciarci rubare la speranza”. Il Pontificato di Papa Francesco è stato una benedizione per la Chiesa e per l’umanità. Ha testimoniato che un altro modo di essere Chiesa è possibile, più povero, più umano, più vicino al cuore del Vangelo. In un mondo segnato da guerre, diseguaglianze e arroganza, ha gridato – con la forza mite del Vangelo – che solo la giustizia, la pace e la misericordia possono salvare l’uomo. E per questo che oggi, mentre lo piangiamo,  non finiremo mai di ringraziarlo per aver illuminato la Chiesa con la Sua vita e con il suo stile evangelico, testimoniato sempre con il suo spirito di povertà, di comprensione e giustizia

Michele Rutigliano

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