Non ci stancheremo mai di condannare la ferocia di Hamas del 7 ottobre di due anni fa. Così come lascia inorriditi la criminale reazione di Israele che, per ora, porta il bilancio dei morti di Gaza a quasi 70 mila e a circa tre volte tanto il numero dei mutilati e dei feriti. Oltre che due milioni di sfollati tra le macerie dell’intera Striscia di Gaza. Sotto le quali nessuno è al momento in grado di stabilire quanti altri cadaveri ci siano. Un grande cimitero sotto la Luna, per dirla alla Bernanos.
Secondo le stime di massima delle Nazioni Unite e della Oxfam, nella Striscia di Gaza è stato distrutto il 92% delle abitazioni civili e il 70% delle strutture industriali e dei servizi pubblici. Attenendoci ad una valutazione ferma, però, solo ai primi mesi di distruzioni, le macerie e i detriti da rimuovere sarebbero stati, allora, oltre 40 milioni di metri cubi. Considerando che gli esperti parlano di un costo di rimozione e di smaltimento che varia da 30 a 100 dollari per tonnellata, si ragiona già di una somma che richiederebbe svariate decine di miliardi di dollari. Cui vanno aggiunti tutti i costi di bonifica, di raccolta delle bombe inesplose, di trasporto e di stoccaggio. Oltre che del personale necessario solo per il completamento della prima fase.
Per l’intera ricostruzione della Striscia, in grado di restituire l’abitazione a due milioni di persone, ed i servizi loro necessari – più la realizzazione della “Riviera” vagheggiata da Donald Trump – si dovrebbero prevedere, dunque, più di altri 50 miliardi di dollari suddivisi in circa 18 da destinare alle infrastrutture ed oltre 40 per gli edifici civili. Il tutto potrebbe richiedere 15 anni di lavoro, se condotto a spron battuto.
Mentre si attende l’esito delle trattative sul rilascio degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas, dei leader palestinesi e delle migliaia di “ostaggi” – incluso bambini – in cattività nelle carceri dello Stato ebraico, è del tutto comprensibile che possa essere in corso una complessa trattativa parallela tra i “grandi” sul chi e sul come si gestirà il grande business della ricostruzione e della futura gestione di Gaza.
Evidente l’ambizione di Donald Trump – e del suo impero familiare ed imprenditoriale – di svolgere un ruolo primario tra i “ricostruttori” sia in termini politici, sia sotto gli aspetti pratici.
Ma ci sono altri appetiti. Quelli delle monarchie e dei principati del Golfo che ambiscono a raggiungere due obiettivi in uno.
Da un lato, entrare finalmente a vele spiegate da primi attori nel mondo dei palestinesi. Da loro sempre considerati un ostacolo piuttosto che una risorsa. Manovalanza da usare nell’imponente sviluppo della produzione petrolifera, prima, e dei servizi e dell’immobiliare, poi, in Arabia Saudita e negli Emirati dove, appunto, i palestinesi sono da paragonare un po’ agli immigrati che giungono da noi sui barconi. Come loro, finiscono per occupare le fasce più sottostanti la piramide del lavoro.
Dall’altro, la ricostruzione diventa ulteriore occasione di investimento e di diversificazione delle loro immense risorse frutto del petrolio, ma che del petrolio devono, in prospettiva, tenere sempre meno conto.
Se è chiara la questione della partecipazione dei paesi arabi e quella americana – non è un caso che Donald Trump abbia affidato il ruolo di inviato speciale nel Medio Oriente a Steven Charles Witkoff – suo immobiliarista di fiducia, sempre più accompagnato dal genero del Presidente Jared Kushner – più complesso è intravedere quella degli europei. Che non stanno certamente con le mani in mano. E forse anche in questo si trova la spiegazione di taluni recenti, ancorché tardivi, interventi a favore dei palestinesi. Chiaramente concepiti in stretto contatto con i paesi arabi.
Certo, le opinioni pubbliche hanno spinto molto ed hanno portato il Primo ministro britannico, Sir Keir Rodney, ad aggiungersi al Presidente francese, Emmanuel Macron, che nel frattempo aveva elaborato un piano di pace assieme all’Aranbia Saudita. Un piano posto sul tavolo di Trump dai paesi del Golfo dopo il bombardamento israeliano contro il Qatar. Netanyahu aveva passato ogni limite ed anche gli USA hanno dovuto fare i conti con quel pezzo di realtà che si provava, fino ad allora, ad escludere dal tavolo.
Così è stata alzata la voce. Persino Giorgia Meloni ha cominciato a giudicare sproporzionata la reazione israeliana e tutte le cancellerie europee si sono decise a fare qualcosa. Anche in vista del futuro, oltre che in considerazione del ruolo giocato nel passato, in particolare da Francia e Regno Unito, nella intera regione.
Starmer, infatti, rappresenta quel Regno Unito che ha sempre mantenuto più che ottime relazioni con le monarchie della Penisola arabica, in grado di giocare un importante ruolo con le proprie multinazionali del petrolio. E non è certo un caso se Tony Blair, adesso, viene addirittura indicato come un possibile “Governatore” speciale alla guida della ricostruzione di Gaza. Un Blair che, come fece ai tempi di Bush il giovane, garantisce Washington ed anche i giganti del petrolio che non gli sono affatto sconosciuti.
Anche la Francia può mettere in campo grandi società di progettazione e di costruzioni, oltre che giganti della finanza. Contando sul lavoro fatto nel corso degli ultimi anni da Parigi per stringere sempre più forti legami nel Golfo. Non è un caso che Macron sia stato l’unico capo di stato europeo ad essere invitato addirittura a partecipare ad una riunione del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), comprendente Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar.
Le voci che circolano in questi giorni ci dicono di una Giorgia Meloni all’opera per raggiungere l’obiettivo di far parte anch’essa del Comitato annunciato da Trump per la ricostruzione di Gaza, vera e propria architrave del complesso schema da allestire per la pacificazione della Striscia, e non solo. Sicuramente si tratterebbe di un lodevole risultato. Soprattutto se questo significasse il ritorno di Roma su posizioni più equilibrate lungo il solco di quelle che ci hanno consentito nel passato di svolgere un’opera costruttiva nell’interno Mediterraneo.
Di questa intenzione meloniana andrebbero, così, definiti modi e prospettive. Tenendo bene i piedi per terra. E considerando che la partecipazione italiana non venga interpretata come una funzione di rappresentanza degli interessi di una sola parte. Anche perché, su questo fronte, il Cancelliere tedesco Merz rischia di presentarsi con carte più forti da far valere. Difatti, a suo vantaggio pesa l’interscambio con Israele: la Germania è il primo partner commerciale europeo con lo Stato ebraico ed il secondo a livello mondiale, per un totale di oltre 25 miliardi di euro l’anno. Di molto superiore agli appena 4,3 di quello tra l’Italia ed Israele.
È triste dover parlare di soldi, giochi più o meno nobili tra gli stati, di tutela di interessi imprenditoriali, quando tra le macerie che, oramai, coprono tutto il terreno di questo oggetto del desiderio da parte di molti, vivono ancora come spettri circa due milioni di derelitti. I quali sanno bene che, coperti dai detriti, restano ancora altre migliaia di corpi di esseri umani che sono stati persino più sfortunati di loro.
Così vanno le cose del mondo e siamo costretti ad apprezzare l’arrivo di una pace costruita dagli affari invece che dalla diplomazia. Consapevoli, comunque, che ciò a cui stanno lavorando i governi, i costruttori e i finanzieri di mezzo mondo, rischia comunque di essere rinviato, se non impedito, da un estremismo ideologico sempre pronto a giungere alle estreme conseguenze, come accadde ai tempi di Rabin ucciso da un fanatico israeliano intenzionato a punirlo per aver stipulato gli accordi di pace con Arafat.
Hamas non è in grado adesso di rialzare la testa. I suoi dirigenti e guerriglieri andranno liberi. E questo sarà ingoiato per cause di forza maggiore. Trump sembra averlo capito bene e preme perché anche Netanyahu accetti definitivamente il suo piano, che poi – salvo alcune modifiche – è quello frutto dell’intesa tra Arabia Saudita e Macron.
Netanyahu anche ieri è tornato a parlare della vittoria finale su Hamas. Bisognerà vedere cosa riuscirà ad ottenere per se. In modo tale che né lui né Hamas – entrambi costretti a trattare per salvare il loro salvabile – costituiscano più l’ostacolo per giungere ad un assetto nuovo. In realtà, ancora tutto da definire e che, come già detto, frutto solo del raggiungimento di un equilibrio tra interessi economici e di potere. Forse l’unico realisticamente alla portata di mano nei brutti tempi che ci sono dati di vivere.
Giancarlo Infante