“Oggi noi ci sentiamo e siamo cattolici sinceri … noi domandiamo di non essere diffidati perché ci prendiamo la libertà di fare una politica democratica, in quella stessa guisa in cui gli altri cattolici hanno la libertà di fare una politica conservatrice”  Giuseppe Donati

Il 16 agosto del 1931 muore a Parigi Giuseppe Donati. E’ appena rientrato nella capitale francese da Malta dove il clima umido ne ha minato completamente il fisico a seguito di una tubercolosi contratta da piccolo. Era stato don Luigi Sturzo a trovargli un posto d’insegnante nel collegio cattolico St. Edward’s  ( CLICCA QUI ) nell’isola mediterranea per alleviare le condizioni economiche dell’esule che l’ex segretario del Ppi aveva voluto a dirigere Il Popolo, prima che finisse l’esperienza dei popolari.

Donati lascia la vita terrena povero e disperato. Non può neppure salutare per l’ultima volta la moglie e le figlie da cui è rimasto separato sin da quando, sei anni prima, è stato costretto a lasciare l’Italia perché antifascista, cattolico e democratico. La sua vita era a rischio dopo la diretta accusa rivolta contro il quadrunviro De Bono di aver orchestrato il rapimento e l’uccisione di Giacomo Matteotti, in evidente soddisfazione dell’avversione di Mussolini per il deputato socialista.

Donati ha il conforto della Fede e delle ultime preghiere con cui l’accompagna un sacerdote chiamato in fretta e furia dall’altro popolare Giuseppe Stragliati e dalla moglie che già in precedenza hanno ospitato il giornalista popolare facendolo lavorare come cameriere nel bistrot che conducono a Parigi.

“Il fascismo- scrive nel dicembre del 1928 Donati- non si vince politicamente se, prima, non viene superato moralmente”. Quel fascismo, contro cui ha sempre combattuto a viso aperto, è da considerarsi, infatti, “una malattia organica a lungo decorso”. La battaglia di Donati, così determinata, tanto estrema, al punto di portarlo a scontrarsi più volte con Alcide De Gasperi per le diverse valutazioni emergenti tra i due sulla linea da seguire nei confronti della partecipazione al primo Governo Mussolini, si basa sul convincimento che il fascismo dev’essere valutato non come una “sovrapposizione storica”, bensì un “prodotto organico, quindi fatale, dello spirito pubblico italiano”. Un qualcosa, dunque, che si sconfigge solo sulla base di un “rinnovamento radicale dell’intelligenza e della coscienza”.

Pertanto, secondo Donati, in questo diventerà sempre più radicale, il raggio della “luce chiarificatrice e purificatrice del pensiero indipendente da ogni preconcetto o dogma di fazione” dev’essere indirizzata anche verso l’antifascismo che egli non esita a definire “fascismo mancato”.

Giuseppe Donati non è né un estremista né un integralista. Lunghi e fecondi i rapporti con gli uomini della cultura e della politica laico liberale, repubblicana e socialista. In Italia, come nel corso dell’esilio. E’ un intransigente, però, la cui intransigenza è portata alle estreme conseguenze per la consapevolezza che “la morale sta a sé” e che la “democrazia non ha un nemico più mortale della demagogia”. Sono gli elementi che lo portano ad una critica serrata del marxismo cui rimprovera il mancato riconoscimento che “la materia è una delle condizioni delle manifestazioni dello spirito, ma non ne è la causa” e, quindi, che “la morale, come la libertà, non è una semplice forma riflessa della realtà economica; non comincia e non sparisce, soprattutto non si esaurisce con questa”. Al determinismo marxista contrappone il “nuovo umanesimo umano” perché, egli ne è convinto, l’uomo vive di “aspirazioni immateriali e trascendentali” ed è il “solo fattore attivo e cosciente della storia”.

Il rigore applicato contro i fascisti e i marxisti non si attenua nei confronti dei clericomoderati, divenuti clerico-fascisti all’indomani della firma dei Patti lateranensi, in piena coincidenza con le valutazioni di don Luigi Sturzo.

Donati si espone molto nel valutare positivamente taluni aspetti dei Patti lateranensi, definiti da Francesco Luigi Ferrari “un’inattesa conciliazione” tra Stato e Chiesa e vissuti come una vera e “propria pugnalata alle spalle” dai cattolici antifascisti. Egli, mentre non esita a riferirsi esplicitamente al “filo fascismo di Pio XI”, non esclude che dall’accordo dell’11 febbraio del 1929 possano venire delle “probabili sorprese” perché, “lo Stato fascista totalitario e antiliberale” ha dovuto garantire “ alla gerarchia cattolica la più illimitata libertà e sovranità”.  Ciò è destinato nel futuro a far emergere in piena vividezza quanto alla base dei rapporti tra cattolicesimo e fascismo vi sia “un conflitto razionale ed etico insuperabile che, investe, come ha dovuto riconoscere di sua bocca lo stesso Pio XI, la concezione stessa dell’anima umana e del suo destino spirituale, i diritti dell’individuo di fronte allo Stato e la funzione di questo rispetto all’individuo, e finalmente il valore del fatto ’patria’ verso il grande dovere cristiano che si ha di tendere all’unità e all’eguaglianza dei vari membri della famiglia umana”.

Ai laicisti che lo rimproverano della dipendenza da un Vaticano che, sottoscrivendo Trattati lateranensi e Concordato, ha consolidato il regime fascista, Donati risponde di ritenere che il problema sta, invece, “nell’impiego e nei risultati di codesto formidabile istrumento giuridico, politico e morale” che in qualche modo pone il problema della codificazione istituzionale dell’esistenza di una “dualità” di opposto pensiero tra quello del fascismo e quello della Chiesa. Certo, non gli sfugge  che spetta alla Chiesa trasformare tutto ciò in “disimpegno giuridico, politico e morale dal fascismo, cioè nel senso opposto e contrario a quello a cui pensano e i fascisti clericali e, se permettono, gli antifascisti anticlericali”.

E’ ciò a cui, a suo avviso, possono fare riferimento quei cattolici “definitivamente dominati da un legittimo spirito di libertà, per i quali la religione è anzitutto  questione di consenso libero e personale” che si contrappongono ai clericomoderati divenuti clericofascisti.

Giancarlo Infante

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